Catania era originariamente un insediamento sicano, quindi dopo il XIII secolo a.C. sede di un grosso villaggio siculo e rifondato come Kατάvη nel 729 a.C. da coloni greci calcidesi guidati da Tucle dal dominio dei quali venne tolta nel 476 a.C. da Gerone I di Siracusa che la chiamò Aitna (Etna). Dopo la morte del tiranno siracusano e la sconfitta di Trasibulo la città fu riconquistata dai Katanaioi che le rimisero il nome originario. Subì la conquista di Dionisio I di Siracusa.
Fu poi conquistata dai Romani nel 263 a.C. È l’inserimento nella universalitas romana che attribuisce alla città il carattere di “sistema urbano complesso”, che verrà continuato fino alla riconversione “barocca” operata dopo la distruzione di fine XVII secolo.
Tracce del periodo pregreco si ritrovano soprattutto in alcune grotte. Notevoli testimonianze del periodo del bronzo antico (1.800-1.400 a.C.) si ritrovano nella grotta Petralia (vedi) dove gli archeologi hanno infatti rinvenuto numerosi frammenti ceramici dell’Età del Bronzo, utensili di selce, ossa di grossi mammiferi, un curioso ciottolo lavico sferico, il cui significato sfugge ancora oggi agli stessi archeologi, vasi, sepolture con scheletri umani, recinti realizzati con sassi opportunamente disposti sul pavimento della grotta, entro i quali probabilmente l’uomo preistorico vi svolgeva riti d’iniziazione (v. Giuseppe Sperlinga su www.cataniacultura.com).
Al periodo romano risalgono invece i resti ritrovati nella grotta dei roditori (vedi). Nella grotta sono stati infatti rinvenuti frammenti ceramici di età tardo-romana e bizantina e i resti di una lucerna.
Rinvenimenti del periodo preistorico si sono avuti anche nella grotta delle Chiesa a San Giovanni Galermo.
Iniziamo il nostro percorso alla scoperta dei resti greci e soprattutto romani di Catania dal cuore della città, piazza Duomo, e dal suo simbolo “U liotru“. La fontana dell’Elefante è stata realizzata da Vaccarini nell’ambito della ricostruzione della città etnea dopo il terremoto dell’11 gennaio 1693. Secondo il geografo Idrisi, la statua dell’elefante era stata realizzata durante la dominazione cartaginese o bizantina. Nel periodo in cui visitò Catania (XII secolo), l’elefante di pietra lavica si trovava già all’interno delle mura della città. Vi sarebbe stato portato daibenedettini del monastero di Sant’Agata, che lo avrebbero posto sotto un arco detto “di Liodoro”. Nel 1239 la statua dell’elefante fu scelta come simbolo di Catania. Alcuni sostengono che il trasferimento all’interno delle mura avvenne proprio in quest’occasione. L’elefante sorregge un obelisco che probabilmente fu portato a Catania durante le crociate, proveniente da Syene. In città fu collocato nel Circo Massimo, secondo l’ipotesi di Ignazio Paternò Castello.
La proboscide dell’elefante indica l’ingresso del duomo dove troviamo delle colonne probabilmente provenienti dal teatro romano.
Accanto al duomo si trova l’ingresso delle terme Achilliane (vedi). Si tratta di strutture termali sotterranee databili al IV-V d.C. Dell’impianto originale si conserva una camera centrale il cui soffitto a crociere è sorretto da quattro pilastri a pianta quadrangolare. Al vano si accede tramite un corridoio con volta a botte che corre in direzione est-ovest e terminante in una porta che si apre su una serie di vasche ad ipocausto parallele tra loro, facenti parte di un complesso sistema di canalizzazione dell’acqua che si estende verso nord. Anche il vano principale si apre con tre ingressi ad arco sulle vasche, ad ovest del vano stesso.
Dietro il Duomo, in via Museo Biscari, alla Civita, si trova quella che la tradizione vuole sia la casa natale Sant’Agata. Così testimonia una lapide fatta affiggere nel 1728 dalla madre abatessa Maria Rosaria Statella nel prospetto sud del convento di San Placido. In effetti nei sotterranei del convento sono stati rinvenuti rest archeologici coevi alla santa catanese.
In via Bonajuto possiamo vistare uno dei pochi edifici di rilievo superstite dell’epoca bizantina a Catania, la cappella Bonajuto (vedi). Si presenta a croce greca con pianta quadrata, cupola e tre absidi («cellae trichorae» o «chiesa a trifoglio») in forma simile alla cuba bizantina presente in Sicilia. L’edificio, che è inoltre arricchito di testimonianze medioevali e quattrocentesche, è scampato ai diversi terremoti che hanno colpito la città, fra cui quello devastante del 1693. La famiglia Bonajuto prese possesso della cappella a partire dal quattrocento e nel secolo successivo vi edificò la propria residenza. Sino all’insediamento dei Bonajuto la cappella era dedicata al SS.Salvatore, denominazione che mantenne probabilmente sino al XVIII secolo. Nel XVIII secolo quando la cappella fu oggetto di restauri e ristrutturazione dell’ingresso, questa fu meta del viaggio del pittore francese Jean Houel.
Ritornando indietro verso il Duomo e imboccando via Garibaldi s’incontra Piazza Mazzini. Nei primi decenni del XVIII secolo, non è certo per mano di quali architetti, in quella che sarebbe dovuta divenire la principale piazza del mercato catanese sorsero quattro identici loggiati, ciascuno composto da 8 colonne in marmo bianco, che formarono una cornice quadrangolare lungo i perimetri del luogo ad eccezione delle quattro aperture stradali. Tali colonne furono recuperate da rovine di epoca romana probabilmente dai resti di una basilica posta dove oggi sorge la chiesa di Sant’Agostino con convento annesso.
Da piazza Mazzini prima per via Auteri e poi per via Bonoma arriviamo a piazza Currò dove possiamo ammirare da lontano (in quanto non sono visitabili) le terme dell’Indirizzo (vedi). Si tratta di alcuni resti di un complesso termale romano risalenti al II secolo. Il complesso evidenzia un calidarium ed un frigidarium, oltre alle fornaci per il riscaldamento dell’acqua e dell’aria e tutte le canalizzazioni per l’approvvigionamento dell’acqua e quelle per lo scarico. Altri ambienti accessori sono evidenziati a livello di fondamenta. La dizione Indirizzo si riferisce al vicino Convento carmelitano dell’Indirizzo, così denominato per un miracolo che avrebbe salvato il viceré Pedro Téllez-Girón, terzo duca di Osuna nel 1610. Sorpreso da una tempesta mentre si avvicinava alla costa durante la notte, venne salvato da una luce votiva di detto convento che lo “indirizzò” al porto.
Proseguendo per via San Calogero si arriva al castello Ursino fondato da Federico II di Svevia nel XIII secolo. Il maniero ebbe una certa visibilità nel corso dei Vespri siciliani, come sede del parlamento e, in seguito, residenza dei sovrani aragonesi fra cui Federico III. Oggi è sede del museo civico della città etnea. Per la tematica del presente articolo ci interessa sottolineare la presenza nel museo del nucleo principale della raccolta Biscari costituito da materiali archeologici provenienti dagli scavi eseguiti a Catania.
Nel cortile San Pantaleone ritroviamo il Foro romano (vedi). Il presunto Forum si presentava come una serie di diversi edifici circondanti un’ampia area centrale che costituiva il “foro” vero e proprio. Tali edifici dovettero essere quasi certamente essere dei magazzini o negozi. Lorenzo Bolano descriveva nel Cinquecento la presenza di otto ambienti con copertura a vôlta a sud e altri quattro a nord (quasi certamente perduti questi ultimi con la creazione del Corso, attuale via Vittorio Emanuele II). Il Bolano riferisce anche di un’ala occidentale distrutta ai suoi tempi. Il Bolano tuttavia lo descrive come un impianto termale, dato che la zona era soggetta a periodici fenomeni di allagamento. La struttura rimase così definita fino alle dovute correzioni del Biscari. Ancora Valeriano De Franchi, cartografo per l’opera del D’Arcangelo, ne traccia una prima planimetria dove la struttura viene chiamata Terme Amasene. Ai tempi del principe Ignazio Paternò Castello il pianterreno risultava essere già sepolto, mentre il secondo piano (cinque metri più in alto) era diventato residenza per molti popolani e i lati ridotti a due soltanto (quelli a sud e ad est) uniti ad angolo retto. Adolf Holm attesta esserci stati ai suoi tempi sette vani ad est e tre a sud e che questi furono chiamati “grotte di S. Pantaleo (…) per metà interrate e ridotte a povere abitazioni”. Il Libertini, in nota al testo dell’Holm, fa presente come gli otto ambienti a sud persistano, mentre le strutture a est furono convertite in antico in un unico corridoio. La facciata era di circa 45 metri di lunghezza. Tuttavia le strutture riconosciute dal Libertini erano quelle del secondo piano, mentre cinque metri più sopra rimanevano i ruderi del piano interrato che potrebbero essere i locali di cui fa menzione l’Holm. Oggi del presunto foro rimangono soltanto un paio di ambienti attigui visibili a sud, con ingresso architravato sormontato da una apertura ad arco, molto simile nell’aspetto ai magazzini del Foro Traianeo, oltre alle aperture ad arco semplice. Della struttura a est rimangono i resti di una parete in opus reticulatum appartenenti ad uno dei magazzini. Tuttavia, in un lavoro del 2008, Edoardo Tortorici ha messo in dubbio la possibilità che si tratti di un foro, mettendo piuttosto la struttura a confronto con gli horrea noti. Il vicino convento di S. Agostino pure conservava parte della struttura, forse una basilica, consistente in un grosso muro cui poggiava l’edificio religioso e trentadue colonne, prima del terremoto del 1693 componenti il chiostro del convento, in seguito poste a decoro dell’antico Plano San Philippo (oggi Piazza Mazzini). Da qui inoltre provengono il torso colossale di imperatore giulio-claudio e un lastricato in calcare un tempo esposti al Museo Biscari. Oggi il torso colossale è ospite al Castello Ursino.
Nella piazza Sant’Antonio dove ritroviamo il Balneum di casa Sapuppo. Trovato da Biscari nel Settecento probabilmente struttura termale privata. Purtroppo il sito è “protetto” da un’orribile gabbia di ferro e vetro che ne rende impossibile la fruizione.
Attraversando in perpendicolare via Garibaldi, via Vittorio Emanuele e infine via teatro Greco ritroviamo il monastero dei Benedettini. Nella piazza antistante ancora un edificio termale romano: il balneum di piazza Dante, anch’esso probabilmente struttura termale privata in dote ad un’antica casa patrizia in epoca tardo imperiale.
Sotto le scuderie del Monastero dei Benedettini e nel cortile interno ritroviamo due strade romane: il Decumano e il Cardo. Il decumano (in latino: decumanus, variante di decimanus, derivato di decĭmus, “decimo”) era una via che correva in direzione est-ovest nelle città romane. Esse erano solitamente basate su uno schema urbanistico ortogonale, ossia suddivise in isolati quadrangolari uniformi, in particolare per quanto riguarda le fondazioni coloniali.
Il termine decumanu veniva infatti utilizzato per indicare una delimitazione in direzione est-ovest nella centuriazione romana, ossia la divisione del territorio di una colonia in lotti quadrati che venivano assegnati ai singoli coloni. Ciascun lotto costituiva il fondo per cento famiglie, ed era delimitato da un cardo, il “polo cardinale” e ogni dieci famiglie, da un decumanus, “la strada della decima parte”.
Uno degli assi principali della centuriazione e dell’urbanistica cittadina era il decumanus maximus, che si incrociava ad angolo retto con il cardo maximus, ovvero il principale asse nord-sud. L’insediamento romano risultava quindi diviso in quattro parti chiamate quartieri (termine che in seguito ha assunto il significato di nucleo con caratteristiche storiche e geografiche all’interno di un agglomerato urbano). Di regola, all’incrocio di queste due direttrici principali si trovava quasi sempre il forum, ossia la piazza principale della città. Il decumanus maximus inoltre collegava due delle quattro porte dell’insediamento, quelle in direzione est – ovest: la dextera e la sinistra. Il Decumano dei Benedettini presenta una notevole pendenza da Est verso Ovest e corre, come dicevamo, sotto tutto il plesso delle ex scuderie del convento. Sui lati del Decumano di affacciavano edifici dotati di portici, di cui ancora oggi si conservano alcuni pilastri in blocchi lavici squadrati e allineati lungo il marciapiede. Accanto al Cardo sono stati ritrovati i resti di una strada e di una domus romani. Sempre in quest’area sono stati repertati manufatti risalenti all’età neolitica e un tratto di mura civiche di periodo greco.
Poco lontano i pochi resti di un altro edificio termale: le terme dell’Itria.
Di fronte l’ospedale Santa Marta, accanto alla chiesa dei Minoritelli, i resti del carcere romano che la leggenda vuole sia stato il carcere di transito dei santi Alfio, Filadelfo e Cirino prima che venissero uccisi a Lentini da Tertullo.
Scendendo per via Rotonda si incontrano le Terme della Rotonda (vedi). Sono delle strutture termali di epoca romana di grande fascino e bellezza, datate al I-II secolo d.C.. Sul sito sorse pure una chiesa di probabile origine bizantina intestata alla Vergine Maria. La singolare struttura architettonica della chiesa che vi si ricavò, una grande cupola sorretta da possenti contrafforti posta su un ambiente quadrato, fece sorgere l’appellativo di Rotonda al complesso ecclesiastico, spesso indicato col toponimo de La Rotonda nelle planimetrie Cinque e Secentesche. La struttura termale è stata solo di recente chiarificata, come un grande complesso di edifici quadrangolari connessi tra loro e seguenti uno stesso orientamento. Tra essi emerge una grande sala absidata – forse un frigidarium – orientata in direzione nord-sud databile alla prima fase vitale delle terme, a cui si appoggia sul lato est un grande ambiente ad ipocausto ricco di numerose suspensurae che dovevano reggere un pavimento mosaicato di cui pure si sono rinvenute esigue tracce e identificabile come calidarium.
Alla fine di via Rotonda, in via Vittorio Emanuele, si segnala per bellezza e importanza storica il Teatro romano (vedi). Il suo aspetto attuale risale al II secolo ed è stato messo in luce a partire dalla fine del XIX secolo. A est confina con un teatro minore, detto odeon. La struttura teatrale visibile appartiene alle grandi costruzioni del genere di epoca antonina, composta da una complessa scena, originariamente decorata da colonne marmoree in seguito resa monumentale con l’aggiunta di nicchie e finti ambienti prospettici che dovevano creare l’illusione di una più vasta profondità, un pulpitum riccamente strutturato e decorato da marmi, l’orchestra dal diametro di circa 22 metri originariamente rivestita in opus sectile con una fantasia di cerchi inscritti in quadrati, danneggiata più volte e restaurata un’ultima volta malamente nel IV secolo, e sovente allagata da una polla di acqua sorgente scambiata in passato con l’Amenano, i due parodoi fortemente rovinati dai lavori effettuati per ricavarne ambienti e persino scarichi per le acque nere, una delle carceris resa nel XVIII secolo una palazzina privata, l’ampia cavea dal diametro di 98 metri costituita da ventuno serie di sedili, divisi orizzontalmente da due praecinctiones e verticalmente da nove cunei e otto scalette. Le due precinzioni separano le tre parti della cavea: ima (poggiata direttamente sul declivio del colle Montevergine), media e summa (queste ultime messe in comunicazione dagli ambulacri che si aprono verso l’esterno tramite diversi vomitoria ai vari cunei e tra loro con un fitto sistema di scale).
Lungo via Crociferi si trovano, in verità ben nascosti da orribili loculi di cemento e vetro, i resti della Domus di via Crociferi casa patrizia di epoca romano imperiale.
Risalendo per via Etnea fino a piazza Stesicoro, a destra, al centro del mercato, si trova la chiesa di San Gaetano alle Grotte (vedi) che sorge sui resti di un antico tempio fondato nel 262 d.C. dall’allora vescovo S. Everio col titolo di S. Maria. All’interno di una grotta lavica originatasi forse nell’eruzione del Larmisi venne ricavata una cisterna ipogea di epoca romana, in seguito riadattata all’uso di sepolcreto paleocristiano delle necropoli. L’impianto primitivo divenne nel 262 una chiesa cristiana, forse la prima costruita a Catania, prima ancora della vicina chiesa del Santo Spirito eretta ad opera del vescovo San Berillo, e tra le prime in Europa ad essere intitolate a Maria. Inizialmente sede di un martyrion. Le tracce più antiche, precedenti alla trasformazione in chiesa, sarebbero da cercarsi nel pozzo a sud dove sul soffitto rimangono tracce di una campata in mattoni di terracotta, un archosolium (murato per ricavarne l’altare), una falsa finestra e due sedili in pietra lavica. Con l’editto che consentiva la libertà di culto del 313 l’edificio poté dotarsi degli elementi strutturali necessari alle funzioni sacre, come l’altare (che probabilmente chiudeva un passaggio verso un altro settore della grotta che si estendeva a nord verso il santuario del Carmine) e l’arco trionfale che reggeva un’iconostasi. In questo periodo l’ambiente venne totalmente rivestito di affreschi di cui oggi non restano che labili tracce, se non una Madonna con Bambino del III secolo, di cui si leggono appena i volti, nella parete settentrionale dov’è ricavato l’altarino, rimaneggiato più volte nei secoli successivi. Con l’erezione del tempio apogeo vengono messe in atto le prime sostanziali modifiche, tra cui un nuovo ingresso più ampio a occidente e la ristrutturazione del pozzo per ricavarne un fonte battesimale. Il battesimo avveniva per immersione e lo si faceva superati i sette anni di vita. Non si conosce se con la conquista Islamica la chiesetta subì qualche modifica, certo è che nell’XI secolo, con l’avvento dei Normanni, fu rimaneggiata sostanzialmente. Venne eretta una nuova gradinata in pietra lavica in sostituzione di una ripida discesa (com’era più usuale in epoca paleocristiana) e il cambio di culto (da orientale a occidentale) influenzò anche l’architettura battesimale: di questo periodo infatti il pozzo cilindrico per il lavaggio del capo ai fanciulli.
Dietro il mercato con accesso dalla Caserma Centro Documentale Esercito di Catania, ritroviamo il Mausoleo romano del Carmine costituito da alcuni resti di un edificio funerario di epoca romana datato alla seconda metà del II secolo e indicato dagli studiosi come significativo esempio fra i monumenti funerari d’età romana. Questo mausoleo è stato erroneamente indicato come la tomba di Stesicoro.
Ritornando su piazza Stesicoro non possiamo non visitare l’Anfiteatro romano (vedi) forse la più significativa testimonianza di epoca romana presente a Catania. Il monumento fu costruito nel II secolo, la data precisa è incerta, ma il tipo di architettura fa propendere per l’epoca tra gli imperatori Adriano e Antonino Pio. Fu raggiunto dalla lava del 252-253 ma non distrutto. Nel V secolo Teodorico re degli Ostrogoti lo utilizzò quale cava di materiale da costruzione per la edificazione di edifici in muratura e, successivamente nell’XI secolo, anche Ruggero II di Sicilia ne trasse ulteriori strutture e materiali per la costruzione della Cattedrale di Sant’Agata, sulle cui absidi si riconoscono ancora le sue pietre perfettamente tagliate usate, forse, anche nel Castello Ursino in età federiciana. L’edificio presentava la pianta di forma ellittica, l’arena misurava un diametro maggiore di 70 m ed uno minore di circa 50 m. I diametri esterni erano di 125 x 105 m, mentre la circonferenza esterna era di 309 metri e la circonferenza dell’Arena di 192 metri, e si è calcolato che poteva contenere 15.000 spettatori seduti e quasi il doppio di quella cifra con l’aggiunta di impalcature lignee per gli spettatori in piedi. Addossato alla vicina collina ne era separato da un corridoio con grandi archi e volte che facevano da sostegno per le gradinate. Era probabilmente prevista anche una copertura con grandi teli per il riparo dal forte sole o nel caso di pioggia. La cavea presentava 14 gradoni. Venne costruito con la pietra lavica dell’Etna ricoperta da marmi ed aveva trentadue ordini di posti. Secondo una tradizione incerta e priva di riscontri si vuole vi si svolgessero anche le naumachie, vere battaglie navali con navi e combattenti dopo averlo riempito di acqua mediante l’antico acquedotto. L’anfiteatro di Catania è strutturalmente il più complesso degli anfiteatri siciliani e il più grande in Sicilia. Appartiene al gruppo delle grandi fabbriche quali il Colosseo, l’anfiteatro di Capua, l’Arena di Verona. Presenta una struttura realizzata con muri radiali e volte non addossata al terreno, dove la facciata non si appoggia direttamente ai muri radiali, bensì a una galleria di distribuzione periferica.
Alle spalle dell’Anfiteatro la chiesa di sant’Agata alla fornace. Sopra l’altare dal magnifico paliotto in marmi policromi, si conservano, protetti da una teca, i resti della fornace in cui subì il martirio la Santa.
Risalendo per via Cappuccini si incontra subito Sant’Agata al carcere (vedi). Secondo la tradizione in questo luogo venne tenuta prigioniera sant’Agata prima di subire il martirio. Accanto ad essa si apre un angusto passaggio che conduce in un locale di epoca romana, attiguo alla chiesa, considerato il carcere di Sant’Agata da cui discende la denominazione della chiesa. Recenti scavi qui effettuati hanno confermato l’esistenza di una grande struttura tripartita coeva al martirio della Santa, la cui funzione tuttavia non è ancora ben chiara. Nella stessa chiesa è conservata la cassa in cui erano contenute le reliquie di sant’Agata riportate a Catania, da Costantinopoli, dai soldati Gisliberto e Goselmo nel 1126, dopo un’assenza di oltre 86 anni.
Ancora più in alto, lungo vi santa Maddalena, ritroviamo la chiesa di Sant’Agata la Vetere (vedi). La sua fondazione risale all’anno 264, quando il vescovo San Everio, quarto vescovo della diocesi, eresse una modesta edicola votiva nel luogo in cui la vergine Agata subì il martirio del taglio delle mammelle, tredici anni dopo la sua morte. Dopo l’editto di Costantino (313) l’edicola fu sostituita da un vero e proprio edificio di culto costruito, ad opera del vescovo San Severino, tra il 380 ed il 436. La chiesa di Sant’Agata la Vetere divenne sede della cattedra vescovile ed in essa sarebbero state trasferite le reliquie della martire dal loro originario luogo di sepoltura. Ampliata in forma basilicale nel 776 o 778, la chiesa fu la cattedrale della città per otto secoli, fino al 1089 o 1091 (quando il conte Ruggero dispose l’edificazione della nuova Cattedrale, consacrata nel 1094): per questo motivo fu indicata con l’appellativo la Vetere, cioè l’antica. Quasi totalmente distrutta dal terremoto del 1693, ad eccezione della cripta sotterranea, fu ricostruita nel 1722. Subito dopo l’ingresso, protetta da una teca, si trova la cassa in legno che per oltre 500 anni custodì le spoglie di sant’Agata.
Nella parte alta di piazza Stesicoro, all’inizio di via sant’Euplio, la Cripta di sant’Euplio (vedi). I ruderi della chiesetta dedicata al diacono co-patrono di Catania, Sant’Euplio, costruita in età medioevale e distrutta l’8 luglio 1943 dal bombardamento alleato, conservano l’accesso ad un ambiente ipogeo, identificato in antico con la prima chiesa in cui il Santo officiò, dove fu trovato e ucciso. All’ambiente ricavato in gran parte nella roccia si accede mediante una scala che conduce in una camera piuttosto umida su cui si aprono alcune nicchie laterali, probabilmente destinate a sepolcro. Sulle pareti resistono ancora antiche tracce di pittura. Gli affreschi dovettero adornare anche il piccolo altare in cui rimangono solo poche figure, ormai quasi completamente scomparse.
Risalendo via Etna fino alla villa Bellini, al numero 35 di viale Regina Margherita, all’interno di un giardino privato, si erge il Mausoleo circolare di villa Modica (vedi). La Villa Modica è un edificio ottocentesco che sorge sul viale Regina Margherita, area di villeggiatura nel corso del XIX secolo sorta su ciò che molti secoli prima fu la Necropoli patrizia di Catania. L’edificio, un ricco palazzotto nobiliare in stile Neo-Romanico con accenni di Neo-Gotico, racchiude un ampio giardino, un tempo facente parte della ricca selva del contado catanese, in cui è custodito un importante Mausoleo Romano. L’edificio funebre presenta un diametro esterno di poco inferiore agli 8 metri e reca a ovest un’apertura arcuata che da’ all’interno. Al di sopra una cornice in terracotta (di cui non rimangono che labili tracce) segnava il confine tra il pianterreno e il piano superiore. L’interno del piano inferiore è un ambiente circolare su cui si affacciano quattro nicchie ad arco ricavate nello spessore murario, mentre la copertura è un’originale volta a cono ribassato (quasi “mammelliforme”) realizzato da fasce parallele concentriche in pietre di lava. Il secondo piano era invece costituito da un portico aperto verso est, costituito da due mezze colonne. Del secondo piano tuttavia rimane un alzato di circa 50 cm soltanto, quanto basta tuttavia a supporre l’esistenza di un nicchione atto probabilmente a contenere una qualche statua.
Poco distante, con accesso da una traversa di via Ipogeo, un altro edificio funebre, l’Ipogeo quadrato (vedi) lungo circa 15 metri e largo 12. Anch’esso presenta un ingresso ad ovest cui corrisponde un angusto corridoio che conduce ad un loculo di fronte, a seguito di una scalinata che lo ingombrava per metà; ai due lati corrispondevano due piccole nicchie atte forse a contenere altrettante urne funerarie e aperte all’esterno da strette feritoie, di cui rimane la sola a nord, a seguito della demolizione della parete sud per ricavare la bocca di una fornace per la calce ad uso dell’allora vicino monastero dei Padri Riformati cui apparteneva. Si presenta costruito ad opus incertum e coperto da una vôlta in mattoni di terracotta. Il Principe di Biscari, sulla base della robustezza della fabbrica e notando i resti di una copertura a volta a botte ne supponeva un secondo piano, verosimilmente a piramide (spinto probabilmente anche dalla considerazione della forma in pianta quasi perfettamente quadrata), così come più tardi confermava il Serradifalco.
Risalendo per via Vittorio Emanuele, dentro l’edificio del vecchio ospedale Garibaldi, ritroviamo la Chiesa della Mecca. L’antica chiesa della Mecca, la cui etimologia rimane oggi ancora ombrosa, si presenta oggi nel suo aspetto settecentesco, ricostruita dopo il terremoto del 1693 su un precedente edificio di culto risalente al 1576 legato ad un piccolo monastero. Il monastero divenne nel 1856 sede di unalbergo dei poveri, divenuto nel 1883 per interesse senato civico sede dell’ospedale Garibaldi. La chiesetta, ridotta oggi a cappella ospedaliera e retta da un piccolo gruppo di monache, conserva l’accesso ad una cripta di epoca romana. Essa consiste di un colombario di oltre 6 metri di lunghezza per quasi 4 di larghezza. Tale colombario venne costruito nella prima metà in pietra lavica e in mattoni per la parte superiore, con una copertura a volta a botte. lungo le quattro pareti si aprono 18 loculi quadrangolari di cui uno, sul lato ovest, a nicchia e molto più grande rispetto agli altri.
Per ritrovare un altro monumento funerario dobbiamo allontanarci dal centro di Catania e spostarci alla periferia in cima alla collina Leucatia (vedi). In cima al monte San Paolillo, resistono all’ingiuria del tempo e dell’uomo i ruderi di un edificio che ricorda la tipologia di alcuni monumenti sepolcrali romani rinvenuti nella città di Catania e in alcune aree della fascia costiera ionica. Sin dal XVII secolo, si narrava di un’antica costruzione risalente al II-III sec. d.C., riferibile a un tempio di epoca romana, dedicato alla dea Leucotea, di forma quadrata, edificata con grossi blocchi basaltici, con all’interno tre nicchie e coperta a volta. La forma quadrata era ascrivibile alla presenza di muri di rivestimento sui lati est, sud e ovest, prolungati fino a incontrarsi ad angolo retto. Le pareti dovevano presentarsi prive di alcun rivestimento marmoreo. La costruzione della monumentale tomba, agli inizi del ‘900, subì consistenti modifiche. Per consentire, infatti, sia una più comoda visione panoramica della città, sia l’appostamento di cacciatori pronti a sparare all’avifauna di passaggio, sarebbe stato costruito un terrazzino con annessa scalinata al posto dell’originaria artistica cupola. Sempre qui, la Soprintendenza ai Beni Culturali e Ambientali di Catania, dal novembre al dicembre 1994 ha condotto una campagna di scavi in seguito alla quale sono stati riportati alla luce, sparsi in un raggio di alcune decine di metri, altri interessanti ritrovamenti: il banco lavico del monumento funerario, una tomba a cassa (sempre di epoca romana), un muro spesso 80 cm e lungo 6 m, che gli esperti, esaminata la tecnica di costruzione, fanno risalire addirittura al IV sec. a.C. E, ancora, materiale ceramico attribuibile al passaggio dal Tardo Bronzo all’Età del Ferro, frammenti ceramici ascrivibili al periodo che va dal Bronzo medio all’epoca greco-arcaica. L’anno successivo, inoltre, sono stati rinvenuti lembi di ciottoli fluviali compattati, sormontati da un piano di calpestio in terra battuta e pochi frammenti riconducibili presumibilmente al Bronzo medio. La breve campagna di scavi ha consentito agli archeologi di verificare quanto già scritto nei secoli passati dai cultori della storia catanese e vale a dire che la presenza di notevole materiale stratificato non solo testimonia con certezza il passaggio di antiche civiltà, ma apre nuovi scenari dalla Preistoria alla colonizzazione greca. Ora, una campagna di scavo della Soprintendenza effettuata a poche decine di metri dal cantiere bloccato dalla magistratura ha riportato alla luce i resti di un villaggio preistorico. Ne sapremo sicuramente di più nelle prossime settimane. L’analisi dei reperti finora recuperati confermano che la colonizzazione del territorio non è avvenuta solo a partire dalla città antica, ma contemporaneamente in aree periferiche che potevano avere per i Calcidesi una posizione strategica militare ed economica. E la collina di Leucatia risponde a queste esigenze, tant’è vero che fu abitata da uomini primitivi che sfruttarono le sorgenti d’acqua e la naturale posizione di difesa del sito. Le conoscenze raggiunte permettono, inoltre, di affermare che non solo l’area ricopre un interesse archeologico di gran pregio in quanto testimonianza diretta d’insediamenti indigeni pre-coloniali, ma anche dell’appartenenza del monumento funerario a una vasta area di necropoli di epoca romana asserita lungo la direttrice della Catania-Messina. Un’altra importante annotazione è che l’attuale area era un’impenetrabile selva di querce e pini. In epoca romana, la legna ricavata da quei boschi, una volta trasferita nei cantieri dell’Urbe, servì in gran parte per la costruzione della flotta navale romana (Tutte le notizie relative alla collina Leucatia sono tratte da un articolo pubblicato dal prof. G. Sperlinga su Cataniacultura).
Un discorso a parte merita l’acquedotto romano (vedi). L’acquedotto romano di Catania fu la maggiore opera di convoglio idrico nella Sicilia romana. Attraversava il territorio compreso tra le fonti sorgive di Santa Maria di Licodia e l’area urbana catanese, percorrendo gli attuali territori comunali di Paternò, Belpasso e Misterbianco prima di giungere al capoluogo etneo. Nonostante la struttura fosse imponente e piuttosto articolata e sebbene fino al XIX secolo non manchino attestazioni del suo utilizzo in alcune sue parti, della presenza di tale sistema idrico non si ha menzione nelle fonti classiche. La prima citazione la compie il Fazello nella seconda metà del XVI secolo che lo definisce ricco di acque e monumentale come quelli di Roma, mentre è in Bolano la prima descrizione dell’acquedotto in rapporto alla città: esso si diramava in tre direzioni, corrispondenti ad altrettanti quartieri civici. Nel Seicento Pietro Carrera e nel secolo successivo Vito Maria Amico e Ignazio Paternò Castello descrivono ampiamente il monumentale sistema idrico, tuttavia le prime immagini che lo ritraggono si devono a Jean Houel che nel suo Voyage pittoresque des isles de Sicile, de Malta et de Lipari illustra alcuni tratti dell’acquedotto, nonché la così detta botte dell’acqua di Santa Maria di Licodia, una grande cisterna chiusa con volta a botte e separata in due ambienti da un alto divisorio, identificata quale la cisterna di raccolta delle sorgive destinate alla distribuzione idrica. Nel XIX secolo la struttura, caduta ormai nel disinteresse, subisce nuovi danneggiamenti ad opera umana (già lo storico Francesco Ferrara ricorda come per la realizzazione delle mura di Catania e per la passeggiata della Marina vennero demoliti gli archi della contrada Sardo e ancora Vincenzo Cordaro Clarenza nel 1833) nonostante nel contempo inizino ad esserci i primi interessi tecnico-scientifici sul monumento, tra cui il Duca di Carcaci ne ipotizza una portata di 46 zappe. L’ingegnere Luciano Nicolosi pubblica la prima monografia sul monumento in cui ne descrive l’aspetto tecnico analizzando tracciato, dimensioni del canale, materiale usato (per l’esterno, come per l’interno del canale) e ipotizza a circa 30.000 cubi di acqua al giorno la portata dell’acquedotto. Nel 1964 l’archeologa Sebastiana Lagona ha per la prima volta usato criteri scientifici moderni nell’analisi dell’edificio e nel 1997 viene pubblicato, a cura della dott.ssa Gioconda Lamagna uno studio accurato del tratto paternese del grande complesso. Infine il 10 maggio 2003, nell’auditorium “Don L. Milani” di Paternò, in occasione della V Settimana della Cultura si è tenuto un convegno con l’acquedotto catanese come tema principale, a cura dell’organizzazione SiciliAntica, con il patrocinio del Comune di Paternò e la collaborazione del Centro Universitario di Topografia antica (CE.U.T.A. dell’Università di Catania) e la Soprintendenza ai Beni Culturali e Ambientali di Catania. Per l’approvvigionamento idrico la città di Katane, nome di fondazione del capoluogo etneo, faceva largo uso delle emergenze che ne bagnavano il suolo. Essendo fondata su un terreno di natura argillosa non erano infrequenti le nascite di sorgive presso le colline che circondavano l’abitato (Monte Po, il Poggio Cibali, Monte San Paolillo, lo stesso Colle di Montevergine sono tuttora ricche alla base di sorgenti spontanee), spesso caratterizzate da sacche o polle d’acqua destinate a estinguersi con la stagione secca; non mancavano nemmeno risorse idriche costanti, come i fiumi – l’Amenano che bagnava la città, il Longane che la lambiva a nord, lo Judicello, ramo a sud dello stesso Amenano – o la Gurna di Aniceto, noto come lago di Nicito. Tuttavia, sin dal 693 a.C., il territorio catanese venne sconvolto dalle eruzioni dell’Etna che contribuirono a rendere instabile la presenza di risorse idriche: il fiume Amenano diventa debole e fiacco e lo stesso lago di Nicito si svuotava lasciando terreni (…) adatti alla coltura. Ovidio racconta che il fiume catanese scorre trascinando sicule sabbie, ora è secco come se le sue fonti si fossero inaridite. Le sorgenti prossime alla città dunque non bastarono più a soddisfare il fabbisogno di acqua e in età non ben identificata iniziò la costruzione del lungo acquedotto che avrebbe giunto le sorgenti di Santa Maria di Licodia con Catania. La presenza della grande struttura è certa solo dall’età augustea in poi, in quanto si rinvenne presso la sua parte iniziale una lapide incisa con i nomi dei curatores aquarum e databile al I secolo, oggi custodita al Museo civico catanese del Castello Ursino. Secondo le fonti in età augustea Catina (il nome latino dell’antica Katane) viene eletta al rango di colonia ed è probabile che questo cambio di status abbia anche permesso uno sviluppo della città etnea e relativa necessità di approvvigionamento idrico e da qui l’esigenza di un tale monumento. L’edificio subì diversi danneggiamenti, tra cui, secondo il Principe di Biscari anche l’eruzione del 253 e una lapide – rinvenuta dal medesimo nel 1771 presso il complesso monacale dei benedettini relativa ad un ninfeo che qui insisteva – ne ricorderebbe dunque un restauro eseguito. Mancando analisi congiunte su tutto il tracciato che possano gettare un po’ di luce sulla storia passata del monumento non siamo ad oggi in grado di delinearne l’uso nei secoli, si può solo ipotizzare che già in epoca islamica la struttura fosse dimenticata, se all’attento Idrisi ne sfugge la menzione. Bisogna attendere il XVI secolo per averne qualche notizia. Nel 1556 il viceré Juan de Vega ordinò lo smantellamento di un lungo tratto dell’ancora esistente ponte-acquedotto sito nei pressi della città, al fine di ricavarne materiale da costruzione da impiegare nella realizzazione delle mura di Catania, dimezzandone la quantità di archi (da 65 che se ne contavano ad appena 32), e nel 1621 dietro comando del Duca di Carpignano, soprintendente generale alle fortificazioni, nell’ambito di un generale restauro dell’assetto difensivo della città, fece spoliare il monumento insieme ad altri per la realizzazione di una strada pavimentata “con ordinate lastre”, cosa straordinaria per quei tempi, che un divenne luogo di passeggio e svago, dotato di panchine e alberi, in cui i catanesi amavano darsi convegno nel tardo pomeriggio. L’eruzione dell’Etna del 1669 contribuì infine a interrare le uniche arcate superstiti presso Catania, lasciandone appena qualche porzione svettante tra le lave, in quelle che agli inizi del Novecento erano le proprietà Borzì-Sulmona (oggi presso via Grassi). Ulteriori danni fecero il terremoto del Val di Noto del 1693 e l’incuria, nonché il cambio di destinazione d’uso e la cementificazione selvaggia. Durante la seconda guerra mondiale alcuni tratti sono sfruttati dalla popolazione locale per sfuggire ai bombardamenti alleati, mentre solo dal 1997 è in atto un continuo lavoro di comprensione e ricerca della struttura la cui finalità è la catalogazione, il restauro e la preservazione.Dell’edificio originario purtroppo non rimangono molte tracce, tuttavia sulla base di queste e sulle descrizioni passate possiamo avere un quadro generale del monumento.Il tracciato dell’acquedotto percorreva circa 24 km da Santa Maria di Licodia a 400 m.s.l.m. fino a Catania, presso il convento benedettino di San Nicola, coinvolgendo cinque territori comunali. A Licodia esistono quattro diverse sorgenti che venivano incanalate in un grande serbatoio (la Botte dell’acqua), di cui ci permane solo una documentazione da parte dell’Houel. Questa struttura, una grande camera a base quadrata divisa da una parete centrale e con copertura a botte, intercettava l’acqua mediante quattro bocche per poi direzionarla ad uno specus, un canale aperto a est, verso Catania. La conduttura misurava oltre mezzo metro in larghezza e un metro e mezzo in altezza ed era coperta con una volta semicircolare impermeabilizzata all’interno con un fine intonaco costituito da malta, pozzolana e frammenti di terracotta (Opus signinum o cocciopesto). Il materiale usato per il resto dell’acquedotto era quindi la pietra lavica principalmente – sia in roccia glabra per il riempimento che in cocci ben squadrati per la copertura – un composto di malta e pozzolana per fissare i blocchi e isolare il flusso idrico (chiamato in antico emplecton), mattoni in terracotta per gli archi. Il Principe di Biscari descrisse diverse lamine di piombo rinvenute all’interno delle condotte e conservate dall’Amico nel museo dei Benedettini con sede nel loro convento. Queste lamine per l’Amico dovevano ricoprire l’intera struttura, mentre il principe più argutamente ipotizza fossero dei restauri effettuati in antico per chiudere le fessure generate dall’usura; tale restauro potrebbe essere quello menzionato dalla lapide relativa al curatores Q. Maculnius. Dal serbatoio quindi si dipartiva il lungo tragitto del canale che prevedeva salti di quota, vallate, villaggi. Per mantenere costante la pendenza la struttura si presentava ora completamente interrata, ora su un semplice muro di sostegno, mentre dove la conduttura doveva affrontare dislivelli notevoli vennero realizzati ponti-acquedotto su arcate portanti, talora anche su due file sovrapposte. Le uniche analisi effettuate ad oggi sono relative al tratto che interessa quasi esclusivamente il territorio comunale di Paternò e risalgono al 1997. Tale tratto corrisponde a circa il 20% del tracciato originale estendendosi per quasi 5 km. Qui da una quota di terra 369,50 m.s.l.m. si giunge a circa 347,50 m.s.l.m., mentre il livello di scorrimento dell’acqua va da quota 368,00 m.s.l.m. a 349,75 m.s.l.m., determinando una pendenza dello 0,0043. Si è supposta quindi una portata di 0,325 m3/s, pari a 325 litri al secondo, non discordanti con le 46 zappe previste dal Duca di Carcaci o con i 30.000 m3 giornalieri supposti dal Nicolosi. Lungo il percorso non erano infrequenti i putei, pozzi di ispezione usati anche per la manutenzione e la pulizia, di cui ancora se notano numerosi, come pure persistevano diversi castella aquae (o castelli di distribuzione, ossia cisterne di filtraggio e diramazione dell’acqua) segnalati a Licodia, Valcorrente, Misterbianco, Catania. Il castello dell’acqua di Licodia è andato perduto a seguito di lavori di sbancamento, mentre nella località Sciarone Castello di Belpasso rimangono i resti più notevoli; a Misterbianco, contrada Erbe Bianche, doveva pure esservi un castello di distribuzione che invogliava l’acqua al complesso termale in via delle Terme e di cui non restano che esigue tracce; a Catania, a poca distanza dall’attuale Corso Indipendenza, il Biscari identifica una fabbrica quadrata coperta a volta, che mostra essere stata forse una conserva d’acqua e un’altra nella vigna dei Portuesi. Il sistema avrebbe dovuto quindi raggiungere un grande serbatoio non ancora identificato e sito probabilmente sul punto più alto dell’abitato, cioè in vetta al Colle Montevergine e da qui si diramavano i tratti di acquedotto civico destinato alle fontane e terme pubbliche, a residenze private etc. Secondo alcuni autori, tra cui il Ferrara e l’Holm, il grande serbatoio si dovrebbe riconoscere nel grande Ninfeo identificato dal Biscari presso il convento benedettino: non era infrequente infatti che una cisterna venisse monumentalizzata e configurata all’esterno come un grande ninfeo. Tale edificio venne riconosciuto grazie a una lapide incisa su cui era scritto <>. Leggende. Molte porzioni dell’acquedotto, soprattutto quelle a quota terra, si sono ben conservate prevalentemente per il riutilizzo come canale di irrigazione. L’uso di un canale di antica fattura ha fatto nascere diverse tradizioni popolari – non scritte, ma tramandate oralmente – come diverse storie legate alla figura di Sant’Agata. Una di queste racconta come un nobile romano si fosse invaghito della santuzza e per dimostrarle l’immensità del suo amore – non corrisposto, in quanto la fanciulla si era promessa a Dio – fece realizzare in una sola notte un acquedotto che da Licodia sarebbe giunto ai piedi della ragazza. Altre storie locali parlano di storie fantastiche e delicate leggende, fino all’identificazione del lungo canale romano con la saja dô Saracinu.
Attualmente esistono tre testimonianze a Catania dei resti dell’acquedotto romano. Di fronte l’ospedale Nuovo Garibaldi, dietro il liceo Spedalieri e in via Grassi in un orto privato (vedi mappa).
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p.s. Dove non citato si devono assumere come fonti l’enciclopedia on line Wikipedia e il testo Catania antica di Antonio Scifo Alma Editore.