Fontana del Cherubino.

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15-07-2014 20-49-48A sud del centro abitato, sotto la rupe basaltica, sgorgano da tempi cinque sorgenti di acque che in passato alimentavano l’acquedotto romano che riforniva Catania di acqua e che in tempi più recenti rifornisce l’attuale Fontana del Cherubino. Detta fontana è stata ristrutturata dai padri benedettini nel 1757, presumendo che essa sia stata costruita in tempi anteriori, dagli aragonesi.

Sito Etnanatura: Fontana del Cherubino.

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Cuba di Santo Stefano

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20120712 025Coperta di edera e di altra vegetazione spontanea, la cuba di Santo Stefano in Santa Venerina conserva una buona parte della sua struttura muraria. La sua scoperta, nei tempi moderni, appartiene a Stefano Bottari, che pubblicava un testo con la descrizione del rudere nella Rivista di Archeologia Cristiana nel 1944-45. L’ingresso, lascia vedere di quanto sia interrato l’edificio. I muri delle absidi danno un’idea dell’ampiezza del naos. Nel nartece possiamo individuare la volta a botte che copriva i braci laterali. Nonostante il rovinoso stato, la finestra dell’abside est ci suggerisce che la sua forma era una bifora o forse una trifora. Un albero nel nartece, un pezzo di muro in una cornice troppo romantica – sono le espressioni dello stato in cui si trova il monumento. Comunque per avere un’immagine concludente è opportuno procedere alla presentazione della pianta che è stato possibile rilevare in quanto i muri perimetrali a varie altezze sono tutti presenti. L’edificio e composto da due parti: una parte trilobata ed uno spazio rettangolare di dimensioni impressionanti. La parte trilobata costituisce la cella trichora. Una trichora ben conservata è la cuba di Malvagna nella vale dell’Alcantara. Si notano bene le abside e la cupola. La chiesa di Dagala si distingue dalle altre trichore per le sue armoniose proporzioni, con ampie absidi laterali, leggermente più piccole dell’abside centrale. Del tutto particolare è e il nartece molto ampio, diviso in tre parti marcati da volte a botte. Nell’estremità sinistra del nartece c’è una cisterna con parete doppio, è una modifica ulteriore che portò alla chiusura di uno degli ingressi del prospetto. Il lato opposto poteva essere chiuso per necessità funzionali. Durante i lavori di rimozione delle macerie e del pietrame, effettuate da Lojacono, non fu trovato alcun pavimento primitivo, invece fu trovato nella zona centrale del nartece un pozzetto formato da pietre laviche che doveva servire da fonte battesimale. La muratura è fatta con la pietra lavica e calce con l’integrazione di conci di cotto. E’ un tipo di muratura caratteristico per le costruzioni della valle d’Alcantara coeve. Nei muri del nartece erano inserite piccole anforette in posizione verticale e orizontale (con la bocca verso l’esterno). Non è del tutto chiaro la loro funzione. Comunque, la presenza del cotto nella muratura contribuisce a mantenere asciutto le pareti affrescate. La copertura della chiesa comprendeva la cupola sopra il naos e tre volte a botte per il nartece, che segnavano la divisione di questo spazio in tre elementi. Le due volte laterali sono indicate dalla conclusione dei muri in altezza in forma di arco ed una piccola parte della volta rimasta. La volta a botte centrale è più una conclusione logica che un indizio esatto degli elementi strutturali rimasti. L’architetto Lojacono nel studiare il rudere ricostruì l’aspetto originale con due sezioni: una longitudinale che mostra la disposizione degli spazi lungo l’asse della chiesa e altra del nartece che illustra l’articolazione di questo elemento particolare per la chiesa di Dagala. L’aspetto esteriore visto da nord-est da un punto più alto dà un’idea dell’insieme. Non c’è dubbio sull’epoca alla quale ascrivere l’edificio. Si tratta del periodo prearabo, tra la seconda metà del VII secolo e inizio del IX, più probabile verso la fine dell’intervallo indicato. Quanto riguarda il nartece, sono state avanzate ipotesi che sia una aggiunta posteriore del periodo normanno. E possibile, ma poteva benissimo essere contemporaneo con la parte centrale della chiesa, in quanto un nartece, pronao, è un accessorio utile e indispensabile delle chiese bizantine. Le dimensioni sproporzionate del nartece sembrano rispondere a una propensione per sottolineare l’importanza, ma osserviamo che rispondeva a concrete esigenze pratiche. Si nota chiaramente che il nartece e un corpo giustapposto alle pareti delle abside; delle fessure chiare si vedono sulla linea di giunzione tra il nartece e le abside. Il tipo di muratura, pietra lavica di dimensioni diversi legati con la calce e l’aggiunta di cocci di cotto, è la stessa. Il nartece, probabilmente costituisce una aggiunta nei tempi coevi alla costruzione della trichora stessa. Il monastero era con certezza uno basiliano alla data della sua fondazione, dato il periodo di costruzione e la sua forma architettonica. Sembra che era attivo nell’inizio del XII secolo, un secolo di grande fiorire del monachesimo basiliano. Possibilmente venne affrescato come successe a Nunziatella, ma dei colori si è persa qualsiasi traccia per causa della caduta del intonaco. Il rapido declino dei monasteri basiliani dalla fine del XII secolo, favorì il passaggio della chiesa al monastero benedettino che venne ricordato nella “Cronaca” di Nicolò Speciale nell’occasione dell’eruzione dell’Etna del 1284, quando,molto probabile fu abbandonato, forse per sempre.

Da vasilemutu.com

Pagina Etnanatura:  Cuba di Santo Stefano.

 

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Ponte Serravalle

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26-04-2014 13-22-26«A mettere in comunicazione le varie masse della sponda sinistra del Simeto: Maniaci, Rotolo, Corvo, S. Venera, Bronte, e tre masse con gli abitanti della sponda destra: Bolo, Cesarò, Carbone, Placa Baiana, Troina, Messina, capitale allora del Valdemone e Palermo capitale dell’Isola, il Conte Ruggiero nel 1121 fece costruire il ponte, detto dagli Arabi Càntera, che diede poi il nome alla contrada e lo dedicò alla memoria della madre sua Adelasia, morta in Patti nel 1118. Vi si leggeva questa epigrafe greca, scolpita in pietra calcarea, posta sull’ala destra del ponte, a Nord: “Fu costruito questo ponte per la serenità del glorio­sissimo conte Ruggiero di Calabria e di Sicilia e dei Cristiani aiutatore per l’assoluzione della defunta madre di lui Adelasia regina. 6629, ind. 14 (1121)”. La stessa data un pò geroglifica si legge in un quadrello di pietra lavica nella centinatura del ponte, a mezzodì; e la stessa data leggevasi pure, mi dicevano gli anziani brontesi, nella parete della Chiesa di S. Giorgio, al camposanto, fabbricata da Ruggiero nel suo passaggio da Bronte, come affermano alcune scritture storico-legali, che si conservano nell’archivio comunale di Bronte. La Chiesa ora è stata distrutta a causa del nuovo cimitero e serve da ossario. Una leggenda narra che operai saraceni furono addetti alla fabbricazione del ponte; che un saraceno, piantatosi colle gambe sulle rive opposte del fiume, abbia indicato il sito, ove esso doveva sorgere. Nella fantasia popolare: saraceno era sinonimo di gigante. Il Dio Termine però dava spesso occasione a litigi; e odi feroci fervevano nei petti dei confinanti per l’eterna lotta del mio e del tuo. Di quest’odio un ricordo è rimasto nel detto tradizionale dei Brontesi: «Sono come Maniaci e Rapiti» per dire: sono due nemici acerrimi.»

Da B. Radice, Memorie storiche di Bronte

Foto di Salvo Nicotra

Sito Etnanatura: Ponte Serravalle.

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Palazzo Platamone

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09-03-2014 13-26-07Il palazzo Platamone alla marina era ubicato tra il porto Saraceno ed il porto Pontone che rappresentavano i due più importanti approdi della Catania medievale. Apparteneva alla illustre e ricca famiglia dei Platamuni che si distinse nel campo commerciale ma che ebbe anche importanti esponenti che primeggiarono nell’ambiente politico ed ecclesiastico. Tra essi Battista Platamuni Viceré di Sicilia nel 1436 e segretario del re Alfonso il Magnanimo dal quale ricevette l’investitura del fondo di Aci; Giuseppe, dell’ordine dei domenicani, che nel 1530 tenne il discorso ufficiale nella cattedrale di Bologna per l’incoronazione dell’Imperatore Carlo V alla presenza del Pontefice Clemente VII; Antonio Vescovo di Malta; la venerabile suor Agata alla cui preghiera si raccomandava da Madrid il medesimo re Filippo II. A questo casato la ricchezza proveniva comunque dal commercio dei prodotti agricoli, del bestiame e dei tessuti esportati da Catania via mare nonché dall’attività svolta da alcuni esponenti della famiglia che esercitavano la professione di affermati banchieri. Il loro palazzo sorgeva nell’area sulla quale successivamente fu eretto il monastero di San Placido, che spesso ospitò la Regina Bianca, moglie di re Martino il Giovane. La medesima regina di Navarra per agevolare i traffici commerciali dei Platamuni aveva concesso l’apertura di una posterna nelle mura di cinta del baluardo adiacente alla casa di Don Antonio Platamuni. Questo privilegio fu goduto successivamente dai principi di Biscari. Le case dei Platamone si trovano inserite nel monastero perché già nel XV secolo la famiglia le aveva donate ai religiosi. Secondo la tradizione la dimora era stata edificata sui ruderi del tempio dedicato a Bacco. Le scosse sismiche del 9 e dell’11 gennaio del 1693 distrussero le fabbriche del monastero ed al sisma sopravvissero solo due monache; quanto rimasto in piedi venne, poi, abbattuto durante la ricostruzione della città. Nel periodo post-terremoto, così come era accaduto per altri monasteri femminili di Catania, al monastero di San Placido venne assegnato un intero isolato della nuova città, il sito era più ampio di quello prima del terremoto e solo in parte si sovrapponeva all’area preesistente. Oltre 100 anni durarono i lavori di ricostruzione del monastero e furono spese migliaia di onze. A questa ricostruzione parteciparono alcuni fra i protagonisti della rinascita della città: Alonzo Di Benedetto, l’architetto Giuseppe Palazzotto, Francesco Battaglia e Giovan Battista Vaccarini, mentre per il nuovo prospetto della Chiesa, iniziato nel 1768, le monache si affidarono all’architetto Stefano Ittar. Il convento è costituito da tre elevazioni, due delle quali risultano realizzate in maniera esaustiva, mentre l’ultima è quasi completamente scoperta, costituita dalla semplice parete di prospetto sia per rapportare l’altezza dell’edificio monastico a quello della chiesa sia per “difendere” la clausura delle monache. All’interno del cortile, sul fondo, si possono notare i resti di Palazzo Platamone risalente al XV secolo. Si può ammirare un profondo archivolto, sormontato da un balcone con parapetto decorato con un motivo a chevron, cioè con fasce bicolori – pietra calcarea e schiuma lavica. L’archivolto è formato da numerose mensole sempre in pietra calcarea legate fra di loro con una serie di piccoli archi ogivali decorati con motivi vari. Al centro lo stemma della famiglia, dove vi è raffigurato un monte sovrastato da tre conchiglie e a loro volta sormontate da un giglio. Questa loggia costituisce la sola testimonianza che ci resta della città tardo-medievale.

Da http://www.comune.catania.it/la_citt%C3%A0/culture/monumenti-e-siti-archeologici/palazzo-platamone-convento-san-placido/storia/

Foto di Salvo Nicotra

Sito Etnanatura: Palazzo Platamone.

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