Catania sconosciuta

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25-01-2009-05-17-55Con l’arrivo dell’inverno potrebbe essere interessante scoprire con poco sforzo le bellezze nascoste di Catania. Tutti conoscono la via Etnea e molti apprezzano per la sua bellezza via Crociferi ma quanti sono in grado di individuare il percorso sotterraneo del fiume Amenano, ritrovare le vestigia romane della città o i resti delle mura che l’hanno difesa dalle invasioni? Sono i piccoli tesori nascosti, spesso sconosciuti se non trascurati, che restituiscono la bellezza e il fascino misterioso di una città unica. Ed è per questo che vi proponiamo tre itinerari nella storia della città:

  1. Catania romana
  2. Il fantasma del fiume Amenano
  3. Catania fortificata

 

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Catania fortificata

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Le mura di Carlo V

di Laura Gullotta

Il XVI secolo fu, per la Sicilia, un periodo caratterizzato da un peggioramento della situazione politica ed economica. Nel 1516 moriva re Ferdinando il Cattolico, al quale succedette il nipote Carlo, figlio dell’arciduca d’Austria Filippo il Bello e della regina di Castiglia Giovanna la Pazza, e dunque erede delle corone di Spagna e di quella imperiale del Sacro romano impero. Ereditò i domini materni con il nome di Carlo I, e cioè: l’Aragona, la Castiglia, i possedimenti italiani (Napoli, Sicilia e Sardegna) e i territori americani. Con la morte di Massimiliano I, nel 1519, Carlo ereditò anche i domini di casa d’Austria. Venne eletto imperatore nel 1519, con il nome di Carlo V. Sotto Carlo V il viceregno di Sicilia cominciò a perdere di importanza, tanto che l’imperatore visitò la Sicilia una sola volta, nel 1535, anno in cui venne incoronato re di Sicilia nel duomo di Palermo. Ripartì poi per il regno di Napoli, lasciando Ferdinando Gonzaga come viceré di Sicilia. La situazione lungo le coste italiane, nel frattempo, si stava facendo sempre più difficile a causa delle continue incursioni turche, e Catania stessa fu teatro di scontri tra i cittadini e soldati ottomani, che furono però costretti alla fuga. Il nuovo viceré Ferdinando de Vega ordinò allora il rafforzamento del Castello Ursino e la costruzione di garitte in pietra lavica lungo tutta la costa, dalle quali le vedette avrebbero potuto segnalare l’avvicinarsi delle navi nemiche e preparare così la città alla difesa.

Pianta_delle_Mura_di_Catania_(1637)Su ordine dell’imperatore Carlo V, il viceré Giovanni de Vega progettò la costruzione di una nuova cinta muraria che sostituisse le ormai deteriorate mura medievali; la città presentava infatti già in epoca medievale un ampio sistema difensivo: le mura erano dritte e divise da torri quadrate. Tale sistema divenne tuttavia obsoleto e venne sostituito da una più moderna e consona cinta muraria difensiva: le nuove mura vennero erette per garantire una maggiore protezione dalle incursioni turche e per adeguarsi alle nuove tecniche militari; la nuova costruzione risultò essere più spessa rispetto alla precedente e caratterizzata da scarpate che permettessero una maggiore resistenza alle palle di cannone. I lavori cominciarono nel 1553, dopo che i rappresentanti spagnoli, riunitosi a Catania l’anno precedente, decisero di assegnare un contributo in cinque anni di mille scudi per il restauro dei muri e la creazione di bastioni e porte di accesso. Il percorso delle nuove mura così si articolava: partendo dalla Porta di Carlo V o dei Canali (così detta poiché si affacciava sui trentasei canali della marina attraverso i quali l’Amenano si riversava in mare), l’unica porta di cui rimanga traccia, ubicata nella zona in cui si svolge oggi il mercato della pescheria, svoltando a sinistra si incontrava la muraglia di S.Agata, che si estendeva fino alla Porta del Porticello o Saracena (detta anche De Vega, in onore del viceré), tra piazza S. Placido e via Dusmet; si giungeva poi al Bastione Piccolo, che si trovava alla marina, detto anche di Don Perrucchio, in onore di Perrucchio Gioeni, che aveva partecipato ad una spedizione in Tunisia con Carlo V. Proseguendo si raggiungeva il Bastione Grande o del Salvatore, tra via Dusmet e via Porta di Ferro, congiungendosi alla Porta di Ferro, in fondo alla via omonima, e al Bastione di S. Giuliano, così chiamato per via dell’omonimo monastero posto accanto, in piazza Cutelli.Continuando il percorso si arrivava alla Porta di S. Orsola, in piazza Scammacca, e al Bastione di S. Michele, il cui nome si riferiva ad una cappella vicina dedicata all’Arcangelo, nell’attuale Piazza Spirito Santo. La Porta di Aci (da cui partiva una strada che arrivava al Castello di Aci), o Stesicorea (per via della sua vicinanza alla tomba del poeta Stesicoro), si trovava nei pressi della chiesa dedicata a S. Carlo Borromeo; proseguendo si giungeva al Bastione del Santo Carcere, nella salita dei Cappuccini, vicino alla chiesa di S. Agata la Vetere, che andava ad unirsi alla Porta del Re, innalzata da Federico III d’Aragona. Andando avanti si giungeva al Bastione degli Infetti o del Vescovo, in cui era ubicata una torre di epoca medievale donata al vescovo Antonio de Vulpone, tra la via Plebiscito e la via Lago di Nicito; poco lontano si trovava il Bastione del Tindaro o del Tonnaro o, ancora, dell’Arcora, poiché nelle vicinanze vi erano le arcate dell’acquedotto di epoca romana che portava l’acqua da Valcorrente in città. Dopodiché il muro proseguiva verso il Bastione di S. Giovanni, tra via Garibaldi e via Plebiscito, congiungendosi al Bastione S. Euplio, tra piazza Cristoforo e piazza S. Antonio, e si univa alla Porta della Decima, così chiamata per via degli uffici delle tasse sulla decima che si trovavano lì vicino. Il muro scendeva poi ai lati del Castello Ursino, formando il Bastione di S. Giorgio e, voltando nell’attuale Via Scuto e via Zurria, arrivava al Bastione S. Croce, che difendeva la città dalla parte del mare. Il muro si congiungeva poi alla Porta dei Canali, completando il percorso. A causa della colata lavica del 1669 e del terremoto del 1693, le mura furono quasi interamente distrutte: parte delle mura furono utilizzate dalle famiglie aristocratiche più importanti della città per ricostruire i propri palazzi. La via del Plebiscito, inoltre, venne creata dopo il terremoto, seguendo il tracciato delle vecchie mura.

“Ti cuntu…” – Laura Gullotta

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

  • MERODE, G.; PAVONE, V. Le origini: dal quaternario al terremoto del 1693, Catania, 1990
  • SANTAGATI, M.; SCIFO, A. (a cura di) Catania medioevale. Itinerario guidato fra Storia, Arte e Leggende, Catania, 2003
  • SANTAGATI, M.; SCIFO, A. (a cura di) Catania dei Viceré. Itinerario cittadino fra Storia e Arte dal 1410 al terremoto del 1693, Catania, 2003

Catania fortificata

di Etnanatura

Ritrovare le vecchie vestigia della città di Catania non sempre è facile e non sempre i pochi resti risultano di immediata leggibilità. Terremoti, eruzioni dell’Etna e, ancor di più, gli interventi sconsiderati dell’uomo che non hanno rispettato le testimonianze storiche, hanno reso arduo il compito di chi vuole riscontrare nel presente i ricordi del passato.

Il nostro percorso alla ricerca dei resti delle antiche fortificazioni della città di Catania inizia da un sito che si trovava fuori dalle mura della città.

 

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Torre di Ognina

Torre di Ognina. Pochissime notizie storiche ricordano questa piccola fortificazione durante i secoli passati. Sconosciute sono le origini: la tradizione vorrebbe che la torre fosse stata edificata sui resti del castello greco di “Italicon”, ricordato da Diodoro Siculo e, sembra, ancora in parte esistente fino al sec. XVI [S. Mazzarella, R. Zanca 1984, pag. 292]. Sebbene Camilliani ricordi della cala di Ognina, della piccola chiesa a ridosso del porto e del relativo borgo, non fa alcuna menzione della torre [C. Camilliani ed. 1877, I, p. 325], che per certo doveva esistere secondo quanto risulta dalla descrizione di T. Spannocchi, contemporaneo del Camilliani: “…Avvi una torre fabbricata al presente la quale se bene è alquanto lontanetta però servirebbe per detta guardia et è di bona fabbrica…” [T. Spannocchi ed. 1993, XI]. Attualmente, infatti, la torre è molto arretrata rispetto all’attuale porto. Questa incongruenza trova spiegazione in un catastrofico fenomeno naturale: nel 1381 una colata lavica interra parzialmente la cala di Ognina [S. Mazzarella, R. Zanca 1984, pag. 292], guadagnando terra al mare e restringendo l’accesso delle imbarcazioni al porto. Forse la torre venne edificata prima di questo evento naturale e, dunque, a ridosso del mare. Al di là di queste poche notizie storiche, non esiste alcun elemento che permetta di datare con esattezza la struttura, che, in via del tutto ipotetica, potrebbe collocarsi tra i secoli XIV e XV [S. Mazzarella, R. Zanca 1984, pag. 294].

Garitte di Ognina e Piazza Europa

Garitte di Ognina e Piazza Europa

Garitte di Ognina e Piazza Europa. Del tutto simili a quella di S. Tecla in Acireale, le garritte di Ognina e di Piazza Europa sono situate la prima nei pressi del cosiddetto “Porto di Ulisse” e la seconda su di uno sperone di roccia lavica a ridosso di Piazza Europa. Entrambe presentano una architettura del tutto simile nelle dimensioni e nella muratura e sono espressione di una consolidata tecnica costruttiva militare spagnola durante il XVI secolo.

Duomo

Duomo

Duomo. L’impianto originario della basilica, edificata da Ruggero I d’Altavilla, risale al 1094, quando i normanni, strappata la Sicilia al dominio arabo, si impiantarono in città dando nuovo vigore al cristianesimo. Nel 1092, Papa Urbano II concesse al normanno Ruggero di ricostituire la diocesi di Catania affidando il potere episcopale all’Abate benedettino Ansgerio il quale sarà anche nominato signore feudale del vastissimo territorio della diocesi attribuendogli piena giurisdizione con il potere di amministrare la giustizia.
Ruggero per l’edificazione della Cattedrale scelse, in un primo tempo, il sito dell’odierna chiesa di Sant’Agata la Vetere dove nel 1091 aveva fondato il monastero Sant’Agata con l’annessa chiesa abbaziale. Nel 1094 preferì trasferire la sede vescovile nel cuore della città e l’antica Cattedrale venne denominata Sant’Agata la Vetere (ossia la Vecchia) per distinguerla dalla nuova che stava sorgendo.
Secondo Ruggero era necessario edificare la nuova chiesa sul mare, con muri spessi e nelle forme di una “Ecclesia munita” (chiesa – fortezza) non solo per difendere la città e il litorale dagli attacchi esterni, provenienti dal mare, ma soprattutto perché, con le sue forme, era chiara espressione dell’accentramento dei poteri politici e religiosi nelle mani del vescovo. (1)

Beloardo di sant'Agata

Baluardo di sant’Agata

Baluardo di sant’Agata. Del perimetro difensivo di Catania, infatti, proprio la cortina muraria a mare è stata quella che ha subìto maggiori rifacimenti, al punto che oggi risulta quasi del tutto impossibile stabilire quale andamento seguisse nelle epoche più antiche. Alcune planimetrie cinquecentesche permettono di ipotizzare che parte delle mura medioevali non fosse ancora stato abbattuto, permettendoci una vaga idea di come proseguissero le mura della città prima dell’erezione dei nuovi bastioni, ma nulla di davvero concreto. Così ciò che ci è noto è frutto di quel progetto di fortificazioni iniziato poco prima del 1550 su volere di Carlo V e fondamentalmente mai concluso. Nella sua Pianta topografica della città di Catania, Sebastiano Ittar ricorda che il tratto di mura alla marina – che a partire dalla Porta delli Canali circonda i palazzi dei Chierici e dell’Arcivescovato, passando dalla Porta Uzeda e chiudendo con la scomparsa Porta del Porticciolo – veniva impropriamente chiamato “Bastione di Sant’Agata”. Si tratta di una originale conformazione a W delle mura che, presso il transetto merlato della Cattedrale che fungeva da vedetta, stringe formando un vertice. (2)

Porta Uzeda

Porta Uzeda

Porta Uzeda. Per chi viene da via Etnea, la porta Uzeda costituisce l’uscita verso sud dalla piazza del Duomo. Essa collega il seminario dei chierici con il palazzo arcivescovile e la cattedrale di Sant’Agata. La porta si apre nelle cinquecentesche mura di Carlo V ed è intitolata al viceré spagnolo Giovanni Francesco Paceco, duca di Uzeda (in castigliano Juan Francisco Pacheco, Duque de Uceda). Il suo viceregno durò dal 1687 al 1696. La facciata del manufatto si rifà a quella del seminario dei chierici a cui è collegata e costituisce un fondale scenografico che unisce tutti i gioielli che si affacciano sulla piazza Duomo.

Porta Carlo V

Porta Carlo V

Porta Carlo V. Nota in passato come Porta delli Canali, prendeva il nome dall’omonima fontana sulla quale si affacciava, è l’unica porta superstite. La grande apertura, realizzata con largo uso di blocchi lavici ben squadrati provenienti probabilmente da un non ben identificato monumento antico, fa verso all’arte classica di cui sono evidenti citazioni le lesene a capitello tuscanico e il registro metopale che esse reggono. Su tutto una lapide marmorea incisa in caratteri e lingua latina che esprime il desiderio di Carlo V di dotare di mura la città di Catania, donde l’attuale nome. Un tempo aperta e ben visibile, a seguito della ricostruzione settecentesca venne inglobata da una fabbrica del sovrastante Seminario dei Chierici. La posizione e la presenza della lapide commemorativa, nonché l’interesse del Lanario di abbellire questo tratto di mura fanno pensare che la Porta fu destinata per essere la principale apertura a sud, in sostituzione della Porta del Porticciolo e della Porta della Decima. La monumentale Fontana dei 36 Canali da cui prese in passato il nome venne realizzata nel 1621, dietro un preciso piano di abbellimento e decoro voluto da don Francesco Lanario Duca di Carpignano, sulle mura di fronte alla Porta e sopra di essa stava una sorta di tribuna adornata con pitture che raffiguravano la storia del dio fluviale Amenano, ma venne distrutta poi dall’eruzione del 1669. Oggi una fontana ben più ridotta, la Fontana dei Sette Canali rimane a ricordo di quella maggiore in piazza Alonzo di Benedetto, non distante dalla Porta di Carlo V.

Piattaforma di santa Croce

Piattaforma di santa Croce

Piattaforma di santa Croce. Si tratta dei pochi resti di uni degli undici bastioni. Il bastione di santa Croce fu infatti completamento inghiottito dalla colata lavica del 1669.

Garitta castello Ursino

Garitta castello Ursino

Garitta castello Ursino. Datata tra il 1621 ed il 1637, venne costruita, su proposta dell’ingegnere militare Raffaello Lucadello, per il “riparo” dei soldati.

Castello Ursino

Castello Ursino

Castello Ursino. Il castello Ursino di Catania fu fondato da Federico II di Svevia nel XIII secolo. Il maniero ebbe una certa visibilità nel corso dei Vespri siciliani, come sede del parlamento e, in seguito, residenza dei sovrani aragonesi fra cui Federico III. Oggi è sede del Museo civico della città etnea, formato principalmente dalle raccolte Biscari e dei Benedettini. Il castello Ursino fu voluto da Federico II di Svevia e sorse fra il 1239 ed il 1250.[1] L’imperatore aveva pensato il maniero all’interno di un più complesso sistema difensivo costiero della Sicilia orientale (fra gli altri anche il castello Maniace di Siracusa e quello di Augusta sono riconducibili allo stesso progetto) e come simbolo dell’autorità e del potere imperiale svevo in una città spesso ostile e ribelle a Federico. Il progetto e la direzione dei lavori furono affidati all’architetto militare Riccardo da Lentini che lo realizzò su quello che allora era un imprendibile promontorio di roccia sul mare, collegata con un istmo alla città ed alle mura cittadine. Fu dotato anche di un imponente fossato e ponte levatoio. Probabilmente il nome di “Ursino” dato al castello deriverebbe da Castrum Sinus ovvero il “castello del golfo”. La costruzione, è a pianta quadrata, ogni lato misura cira 50 metri. I quattro angoli sono dotati di torrioni circolari con diametro poco superiore ai 10 metri e altezza massima di 30, mentre le due torri mediane sopravvissute (in origine erano quattro) hanno un diametro di circa 7 metri. Le mura sono realizzate in opus incertum di pietrame lavico e presentano uno spessore di 2.50 metri. Originariamente il castello presentava alle basi delle scarpate che lo slanciavano dandogli un aspetto decisamente imponente. Esse sono visibili nel fossato del lato sud del castello grazie agli ultimi scavi effettuati. Il lato settentrionale è quello principale ed è ben conservato con quattro finestre anche se originariamente non presentava aperture per renderlo meno vulnerabile agli attacchi nemici, qui l’entrata del castello era difesa da un ponte levatoio e da mura difensive i cui resti sono ancora visibili nel fossato di fronte all’entrata. Una base a scarpa rafforza la struttura del castello. Il lato sud è molto cambiato nel tempo, data la scomparsa della torre mediana e delle numerose finestre aperte nel tempo. Qui troviamo una porta secondaria detta “porta falsa” che, per mezzo di una scivola (che probabilmente era in legno e pietra), conduceva all’imbarcadero a mare ricavato oltre il bastione; il lato sud del castello infatti fino alla metà del XVI secolo era direttamente prospiciente la spiaggia e le acque del mar Jonio. Poi la realizzazione del bastione di San Giorgio e della piattaforma di Santa Croce lo allontanarono dal mare, ma lo resero efficiente per l’uso dei cannoni. Il definitivo allontanamento dal mare e l’innalzamento del livello del terreno circostante al castello fu dovuto alla colata lavica del 1669 che lo cinse quasi totalmente e sommerse i bastioni. Il lato est non presenta la semi torre ma vi si trova una meravigliosa finestra di età rinascimentale con un pentalfa in pietra nera lavica. I moderni lavori di restauro hanno portato alla luce fino ad ora parte dei bastioni cinquecenteschi, una garitta perfettamente conservata e gli originari basamenti a scarpa che oggi restituiscono l’originaria maestosità alle torri angolari del castello. Il progetto originale probabilmente non prevedeva una merlatura, rara nei castelli federiciani. Ma successive modifiche e ricostruzioni della parte sommitale di alcune torri, hanno probabilmente previsto l’inserimento di merlature. L’ingresso, semplice, si trova nel prospetto nord ed ha sopra in una nicchia una scultura raffigurante un’aquila sveva che afferra una lepre simbolo del potere del sovrano Federico II sulla città etnea, erroneamente scambiata talora per agnello[3]. Al suo interno si sviluppava la corte e vi rimane un bel cortile con scala esterna in stile gotico-catalano costruita in età rinascimentale, intorno all’atrio c’era una fuga di crociere quadrate che furono definite “campate di un maestoso tempio gotico”. Attorno al cortile interno c’erano le quattro grandi sale fiancheggiate da sale minori, dalle quali si accede alle torri angolari. Ogni grande sala è divisa da tre campate, coperte da volte a crociera costolonate che si dipartono da semicolonne con capitelli ornati a foglie. Dal piano inferiore al piano superiore si accedeva attraverso le scale a chiocciola posizionate all’interno delle semi torri nord e sud. Funzionalmente combinò sia la funzione di reggia (palatium) che quella di maniero (castrum). L’aspetto complessivo del castello nel suo ambiente circostante è notevolmente cambiato nel tempo, in origine si affacciava sul mare nei lati sud ed est, posizionato su un’altura a dominare il porto e la città bassa e reso imponente dalle scarpate. Dopo la colata lavica del 1669 e il terremoto del 1693, il castello vide allontanare la linea di costa di centinaia di metri e rialzarsi il livello del terreno di una decina di metri così che la sua imponenza e la sua magnificenza venne occultata per sempre.

Porta della decima

Porta della decima

Porta della decima. Secondo quanto riportato da Sebastiano Ittar nella sua Pianta topografica della città di Catania la Porta della Decima era nota anche come Porta Siracusa e nasceva in sostituzione dell’antica Porta Ariana. La sua esistenza è certa nel Medioevo, in quanto al di sotto di tale ingresso vi passarono i catanesi ribelli al re Federico in umiliazione sotto un arco di spade. Qui, dato il nome, avveniva il pagamento della decima, ossia un decimo del raccolto che veniva versato come tributo al sovrano. Ancora integra nel 1833, venne demolita per la lastricazione dell’antistante piazza San Giuseppe, oggi titolata piazza Carmelo Maravigna.

Porta del Fortino vecchio

Porta del Fortino vecchio

Porta del Fortino vecchio. Detta anche Porta di Ligne, era l’unica porta esistente nel Ridotto o Fortino, un tratto di mura eretto nel 1672 sulle lave ancora calde, distante dal sistema difensivo originario, ma facente parte di esso in quanto ne sostituiva la parte sud-ovest, irrimediabilmente perduta. Deve il nome al viceré Claude Lamoral I di Ligne che inaugurò il fortilizio entrando per tale porta in pompa magna. L’ultima testa coronata a passarvi fu Vittorio Amedeo II di Savoia durante il suo soggiorno siciliano, dopodiché decadde e si preferirono altri più comodi accessi, come la Porta Ferdinanda del 1768. Il Fortino datato un secolo divenne Fortino Vecchio e oggi la Porta, ancora ben visibile in fondo alla via Sacchero, prende tale nome.

Bastione san Giovanni

Bastione san Giovanni

Bastione san Giovanni. Rimasto illeso dall’eruzione del 1669 fu in parte distrutto dal terremoto che si verificò nello stesso anno. Ma furono l’incuria e il degrado dei secoli successivi ad alterarne definitivamente la fisionomia.

Bastione del Tindaro

Bastione del Tindaro

Bastione del Tindaro. Detto anche dell’Arcora (metà del XVI secolo). Facente parte della cortina muraria catanese, venne distrutto in parte dall’eruzione del 1669 e ricostruito nel 1674. Venne acquisito dai monaci benedettini che vi ricavarono il confine perimetrale del loro monumentale Giardino. ggi è visibile dal vico del tindaro e dall’interno dell’Ospedale Vittorio Emanuele.

Bastione degli infetti

Bastione degli infetti

Bastione degli infetti. Si trova sulla collina di Montevergine, antica acropoli di Catania. Già Cicerone, parlando dei furti di Verre, definisce il tempio di Cerere, Che doveva sorgere dove oggi troviamo i resti del Bastione degli infetti come tempio di gran culto. Ecco la citazione di Cicerone: “Nella parte più interna si trovava un’antichissima statua di Cerere, che le persone di sesso maschile non solo non conoscevano nel suo aspetto fisico, ma di cui ignoravano persino l’esistenza. Infatti a quel sacrario gli uomini non possono accedere: la consuetudine vuole che le celebrazioni dei riti sacri avvenga per mezzo di donne sia maritate che nubili…Esiste un’antica credenza che si fonda su antichissimi documenti e su testimonianze greche, che tutta l’isola siciliana sia consacrata a Cerere e Libera. Non è una profonda persuasione, a tal punto da sembrare insito e connaturato nel loro animo. Infatti credono che queste dee siano nate in quei luoghi e le messi in quella terra per prima siano nate in quella terra per prima siano state scoperte, e che Libera, che chiamano Proserpina, sia stata rapita da un bosco degli Ennesi”. In seguito il vescovo Leone II detto il Taumaturgo fece distruggere, come ricordano gli Atti Latini, il tempio utilizzando le sue pietre per costruire l’allora Cattedrale di Catania che corrisponde con l’attuale chiesa di sant’Agata la Vetere (vedi). Le Mura di Carlo V erano un complesso murario che venne fatto realizzare a Catania dall’imperatore Carlo V a difesa della città: esse erano costituite da undici bastioni ed avevano sette porte di accesso alla città. L’incarico della costruzione venne dato all’architetto Antonio Ferramolino all’inizio del XVI secolo ma la costruzione andò avanti con molta lentezza vista la complessità dell’opera. Esse racchiudevano completamente la città del tempo e la difendevano dai pericoli esterni. Ma, prima l’eruzione dell’Etna del 1669 e poi il terremoto del 1693 le rovinarono gravemente, ma la loro scomparsa definitiva si deve al piano di rinnovo urbano del XVIII secolo. Una delle poche testimonianze rimaste è costituita dal Bastione degli infetti costruito nel 1556 ad opera del viceré Vega.

Torre del Vescovo

Torre del Vescovo

Torre del Vescovo. Accanto ai resti del Bastione degli infetti ritroviamo la Torre del Vescovo. La torre si ritene fondata agli inizi del XIV sec. (1302 d.C.?) ed è parte integrante dell’antica cinta muraria aragonese. Venne acquistata dal vescovo Antonio de Vulpone e trasformata, insieme all’area antistante, in lazzaretto. L’edificio si caratterizza per la pianta quadrata e la tecnica edilizia (non uniforme) costituita da pietrame lavico appena sbozzato, inzeppato con frammenti di terracotta e legato insieme da malta. I cantonali sono rinforzati con blocchi di pietra lavica squadrati. Della torre si conservano solo tre dei quattro muri perimetrali, solo quelli rivolti verso l’esterno della cinta muraria. Si tratta, probabilmente, di un semplice accorgimento architettonico: in caso di assedio e di conquista della cinta muraria, gli attaccanti non avrebbero potuto utilizzare la torre contro la città, essendo essa, in corrispondenza del lato meridionale, esposta al tiro degli arcieri. L’edificio conserva solo le saettiere del primo piano, sebbene sia probabile che esistesse anche una seconda elevazione, oggi del tutto scomparsa. Il pavimento di entrambi i piani doveva essere ligneo. Non si conserva merlatura e la scarpa del pianterreno appare come aggiunta posticcia di tempi relativamente recenti. Nel XVI sec. il lazzaretto si estese, comprendendo oltre alla Torre del Vescovo anche il limitrofo bastione di Carlo V. Il nuovo complesso prese il nome di “Ospedale degli Infetti“» (3).

Bastione del santo carcere

Bastione del santo carcere

Bastione del santo carcere. Il Bastione del Carcere, erroneamente detto anche di Sant’Agata (la Cortina di Sant’Agata è infatti alla Marina), sorse nel XVI secolo a protezione della Vetere, la prima cattedrale della città, legata dalla tradizione ai luoghi del martirio di Sant’Agata. Di forma pentagonale e privo delle torrette cilindriche angolari, inglobava un sistema di mura e torri preesistente, forse di epoca tardo-antica. Dopo il sisma del 1693 fu in parte demolito per ricavarne la facciata della chiesa di Sant’Agata al Carcere, mentre nello spessore murario si crearono vari ambienti di comodo per la medesima chiesa. Tra Otto e Novecento la parete nord viene offuscato da una serie di edifici che vi si addossano sfruttandolo come parete portante, mentre il lato occidentale viene demolito per la creazione della piazzetta della Vetere. Oggi è una tappa obbligata per la Festa di Sant’Agata: erroneamente infatti si crede che la finestrella cinquecentesca della Guardia fosse quella da cui si affacciava sospirante la santa durante la sua prigionia. (4)

Bastione di san Michele

Bastione di san Michele

Bastione di san Michele. Iniziato nel 1555 e mai compiuto, il Bastione prendeva il nome dalla chiesa di San Michele, trasferita poi su via Etnea nel Settecento. Dopo il sisma del 1693 venne sfruttato per realizzarvi residenze e fu modificato al punto da renderlo irriconoscibile: del muro a scarpa rinascimentale rimane infatti appena una piccolissima porzione su via Coppola, dove rimane parte di un edificio settecentesco, dal cui civico 43 si può accedere al cortiletto ricavato nella piazza d’arme. Il resto dell’edificio è un elegante palazzotto nobiliare di primissimo Novecento, ormai privo di qualsiasi elemento che ne rammenti l’originale funzione militare. (5)

Bastione di san Giuliano

Bastione di san Giuliano

Bastione di san Giuliano. Le mura di vicolo della sfera sono ciò che resta del vecchio bastione di san Giuliano.

In collaborazione con “Ti cuntu

Altre pagine Etnanatura:

Se non espressamente dichiarato le notizie sono tratte da Wikipedia

(1) – http://www.cattedralecatania.it/fasicostr.aspx

(2) – http://urbanfilecatania.blogspot.it/2012/10/ripari-perduti-analisi-di-alcuni.html

(3) – http://www.medioevosicilia.eu/markIII/torre-del-vescovo/

(4) – http://etnaportal.it/catania/bastione_del_santo_carcere

(5) – http://etnaportal.it/catania/bastione_di_san_michele

 

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Alesa Arconidea

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GreciDiceva Cicerone (Verrem, II, 3,170): « Siciliae civitates multae sunt, iudices, ornatae atque honestae, ex quibus in primis numeranda est civitas Halaesina […] » «Vi sono in Sicilia, o giudici, molte città belle e importanti, tra le quali va annoverata fra le prime la città di Alesa». I resti di Alesa si trovano in territorio di Tusa sulla costa settentrionale della Sicilia. Secondo Diodoro Siculo Alaisa fu fondata nel 403 a.C. e concessa ai Siculi dal tiranno Arconide di Herbita (da cui prese il secondo nome) come ringraziamento per l’aiuto avuto nella guerra con la potente Siracusa. La presenza di un tempio dedicato al dio Adrano testimonia l’influsso avuto sulla città da popolazioni provenienti dai territori Etnei. Alesa partecipava al gruppo delle sedici città, tutte di discendenza troiana, incaricate di fornire guarnizioni per la protezione del santuario di Venere Ericina a Erice. Dopo la conquista romana di Siracusa Alesa fu dominata per un breve periodo dai cartaginesi per rientrare ben presto nella sfera d’influenza romana ottenendo lo status di civitas libera ac immunis. Sotto Augusto la città divenne municipio e acquista la cittadinanza romana.
Foto di Michele Torrisi

Pagina Etnanatura: Alesa Arconidea.

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Cuba di santa Domenica

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20120725 189Il tempio sito nella Valle dell’Alcantara, denominato a “Cuba”, ma dedicato a Santa Domenica, come diceva il Lojacono forse per tradurre in forma latina la sua antichissima dedica a Santa Ciriaca, appartiene alla cosiddetta Nuova Età che va dal VII° Sec. fino al IX° Sec., segnando così la fine dell’Antichità. Il lato Sud di questo vetusto complesso doveva essere strutturalmente e funzionalmente associato ad un altro edificio monastico, sorto successivamente; la porta murata durante i restauri sul finire degli anni 50, da parte di P.Lojacono, è un chiaro esempio di comunicazione chiesa – monastero. La cupola a vela del naos era fortemente spaccata in più punti, e alcuni speroni mancanti o disgregati non potevano assicurare più l’equilibrio dell’insieme. Si aggiunga che fondazioni allo scoperto, squarci interni e l’asportazione di grossi blocchi di base di alcuni pilastri portanti avrebbero costituito l’inizio ad un eventuale pregiudizio alla stabilità. La Chiesa di Santa Domenica sorse probabilmente tra il 775 ed i primi anni dell’800, dopo la morte dell’imperatore Costantino V figlio dell’imperatore Leone III° detto l’Isaurico; si distinsero entrambi nella lotta iconoclasta che decretarono ed operarono sempre nel nome di Dio, facendo credere che le immagini fossero idoli e i veneratori idolatri; dunque, sia gli uni che gli altri, venivano distrutti. Furono dunque i monaci i veri costruttori ed architetti delle cinque Cube nella Valle dell’Alcantara? Inoltre la Chiesa di Santa Domenica per essere la più grande della Valle dell’Alcantara, lascia supporre che il Sito di Contrada”Cuba” doveva essere densamente abitato, e che le altre quattro “Cube” dovevano roteare intorno; analizzando invece i diversi reperti archeologici trovati in Contrada Imbischi in Contrada Cuba e dintorni, notiamo che il passato di questi territori è legato alla stessa civiltà. Anche se il materiale impiegato per la costruzione di Santa Domenica è molto diverso nelle qualità da quello delle Chiese dell’Anatolia, la Chiesa di Santa Domenica sembra derivi dalle tradizionali costruzioni a Basiliche che poggiano su enormi spazi con grandi cupole al centro, e nel contesto di queste forme, si ricorda la Chiesa di Santa Sofia di Costantinopoli o Chiesa Grande. La Chiesa di Santa Domenica è stata dichiarata Monumento Nazionale il 31 Agosto del 1909.

da http://web.tiscalinet.it/Castiglione_di_Sic/cuba.htm

Pagina Etnanatura: Cuba di Castiglione.

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Foro romano di Catania

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06-10-2014 21-26-31Il presunto Forum si presentava come una serie di diversi edifici circondanti un’ampia area centrale che costituiva il “foro” vero e proprio. Tali edifici dovettero essere quasi certamente essere dei magazzini o negozi. Lorenzo Bolano descriveva nel Cinquecento la presenza di otto ambienti con copertura a vôlta a sud e altri quattro a nord (quasi certamente perduti questi ultimi con la creazione del Corso, attuale via Vittorio Emanuele II). Il Bolano riferisce anche di un’ala occidentale distrutta ai suoi tempi. Il Bolano tuttavia lo descrive come un impianto termale, dato che la zona era soggetta a periodici fenomeni di allagamento. La struttura rimase così definita fino alle dovute correzioni del Biscari. Ancora Valeriano De Franchi, cartografo per l’opera del D’Arcangelo, ne traccia una prima planimetria dove la struttura viene chiamata Terme Amasene. Ai tempi del principe Ignazio Paternò Castello il pianterreno risultava essere già sepolto, mentre il secondo piano (cinque metri più in alto) era diventato residenza per molti popolani e i lati ridotti a due soltanto (quelli a sud e ad est) uniti ad angolo retto. Adolf Holm attesta esserci stati ai suoi tempi sette vani ad est e tre a sud e che questi furono chiamati “grotte di S. Pantaleo (…) per metà interrate e ridotte a povere abitazioni”. Il Libertini, in nota al testo dell’Holm, fa presente come gli otto ambienti a sud persistano, mentre le strutture a est furono convertite in antico in un unico corridoio. La facciata era di circa 45 metri di lunghezza. Tuttavia le strutture riconosciute dal Libertini erano quelle del secondo piano, mentre cinque metri più sopra rimanevano i ruderi del piano interrato che potrebbero essere i locali di cui fa menzione l’Holm. Oggi del presunto foro rimangono soltanto un paio di ambienti attigui visibili a sud, con ingresso architravato sormontato da una apertura ad arco, molto simile nell’aspetto ai magazzini del Foro Traianeo, oltre alle aperture ad arco semplice. Della struttura a est rimangono i resti di una parete in opus reticulatum appartenenti ad uno dei magazzini. Tuttavia, in un lavoro del 2008, Edoardo Tortorici ha messo in dubbio la possibilità che si tratti di un foro, mettendo piuttosto la struttura a confronto con gli horrea noti. Il vicino convento di S. Agostino pure conservava parte della struttura, forse una basilica, consistente in un grosso muro cui poggiava l’edificio religioso e trentadue colonne, prima del terremoto del 1693 componenti il chiostro del convento, in seguito poste a decoro dell’antico Plano San Philippo (oggi Piazza Mazzini). Da qui inoltre provengono il torso colossale di imperatore giulio-claudio e un lastricato in calcare un tempo esposti al Museo Biscari. Oggi il torso colossale è ospite al Castello Ursino.

Da wikipedia

Foto Salvo Nicotra

Pagine Etnanatura: Foro romano di Catania.

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Mamma li turchi

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La guerriglia marittima e costiera delle navi corsare musulmane in Sicilia e in Italia comincia nel VII secolo e continua sporadicamente fino agli inizi del secolo XIX. Dai documenti rinvenuti nella Geniza del Cairo (Goitein, 1977) risulta che le azioni di pirateria sulle coste della Sicilia, con provenienza dall’Egitto, non subirono mai un arresto completo dopo la conquista di Ruggero il Normanno (1061-1091). Le incursioni arabe, provenienti dai paesi rivieraschi dell’Africa Settentrionale,  continuano nei secoli seguenti, si intensificano nel ’500 e ’600 e cesseranno solo poco prima del 1830, quando con la presa di Algeri da parte della Francia, la pirateria nordafricana venne definitivamente fermata.. I Corsari portavano di sorpresa agguati ed attacchi sia a navi mercantili e militari, sia a località costiere, per impossessarsi di merci e persone, vendute poi come schiavi nei numerosi mercati arabi del Mediterraneo. Queste scorrerie arrecavano perciò gravi danni al commercio esterno ed interno e soprattutto alle popolazioni rivierasche, le più esposte ai pericoli, che abbandonavano il litorale e fuggivano verso l’interno, con conseguente calo della produzione delle campagne. “U tiempu di li corsari” era da aprile ad ottobre, quando il mare era navigabile, le genti dedite alla raccolta dei prodotti e questi non ancora trasportati via. Il terrore per le razzie dei Saraceni, che depredavano e rapivano uomini, donne e fanciulli, è rimasto vivo nell’espressione popolare “Mamma li Turchi” e anche nei canti popolari: Li Turchi sunu iunti alla marina, all’ordini cuteddi e cutiddina, scupetti, baddi, pruvuli e lupari… Fra le innumerevoli vittime dei frequenti raid musulmani, figura anche un Santo, Antonio Nigro, catturato presso Vendicari e impiccato con altri cristiani a Tunisi il 15-1-1500 (cfr. O. Caietani, Vitae Sanctorum Siculorum.). Le scorrerie dei corsari sono confermate anche da architetti, geografi e storici. Camillo Camilliani nel 1584, propone di spianare l’Isola dei Porri, perché vi si nascondevano facilmente le navi dei pirati.” I suoi scogli sono tanto alti… che comodamente il corpo di quattro bergantini disalborati vi si può occultare, sicché da niuna parte può essere scoperto; e con facilità detti scogli si potriano spianare…e con poca spesa si potrebbe ovviare al pericolo.” E poco dopo aggiunge. Dopo aver superato i numerosi e pericolosi “ridotti e antri grandissimi”, in cui “si può occultare una squadra di galeotte”…si arriva ad un “promontorio domandato “il Castellaccio….”  Il Castellalfero, nella sua Relazione a Vittorio Amedeo di Savoia del 1713, scrive: “Nell’Isola delli Porri, come ivi seguono continui li contrabbandi, come pure si fa sovente nido de’ Turchi, vi sarebbe necessaria una Torre di Guardia.  Nascono così in Sicilia diverse torri e postazioni di avvistamento, dette genericamente Torri Saracene per la difesa dalle incursioni dei pirati. (1)


Visualizza Torri Saracene in una mappa di dimensioni maggiori

Vediamo ora di ripercorrere, da nord a sud, le postazioni di avvistamento per la difesa dagli attacchi dei pirati che si trovano nella provincia di Catania.

Torre Vignazza (vedi).

Torre Vignazza

Torre Vignazza

Nel 1544, in seguito alle incursioni del corsaro Kheir-ed-Din Barbarossa, a capo Schisò furono costruite alcune strutture militari: la torre del castello di Schisò, un basso fortino ora inglobato nel Museo Archeologico e un punto di osservazione in località Vignazza. La torre Vignazza, una costruzione quadrangolare a 3 elevazioni fuori terra, controllava il tratto di costa a sud del porto di Schisò ed era in collegamento visivo con il castello di San Marco a Calatabiano, grazie a due garitte che si trovavano nelle contrade Jannuzzo e Recanati. Nel corso del XVI secolo i pirati provenienti da Tripoli, Tunisi e Algeri con piccole imbarcazioni veloci assalivano e saccheggiavano i villaggi costieri; per contrastare queste incursioni furono costruite delle torri lungo tutta la costa della Sicilia che non permettevano di affrontare il nemico a viso aperto ma erano dei punti di avvistamento. Il guardiano del torrione, quando un vascello sospetto si avvicinava alla costa, sparava un colpo di avviso per intimare all’imbarcazione di accostare e farsi riconoscere. Se questa si allontanava ignorando l’ordine, dalla torre si inviavano subito segnali di fumo o di fuoco alle torri vicine fino a che quando la richiesta d’aiuto veniva raccolto dalla più vicina guarnigione, o dal porto più vicino, che poteva così intervenire per contrastare l’incursione dei pirati. Contemporaneamente dalle torri costiere in allarme messaggeri a cavallo avvisavano del pericolo gli abitanti delle case isolate e i villaggi dei pescatori. Le scorrerie dei corsari nel Mar Mediterraneo cessarono definitivamente solamente nel 1830 quando Algeri venne conquistata dai francesi. (5)

Torre Modò (vedi).

23-10-2014 14-20-09

Torre Modò

Nel 1540 l’imperatore Carlo V concesse il governo dei territori della contea di Mascali a Nicola Maria Caracciolo, vescovo di Catania.

La contea assunse anche il nome di contea delle sette torri proprio per l’esistenza di sette torri di avvistamento che dovevano proteggere il territorio dalle invasioni arabe. Sull’ubicazione delle torri, ma anche sul loro numero, non si è certi e spesso la leggenda si confonde con la storia. Comunque diverse fonti, anche se non tutte attendibili, testimoniano dell’esistenza delle seguenti costruzioni:

  1. Torre di Mascali, ubicata nei pressi del duomo e distrutta dall’eruzione lavica del 1928 che rase al suolo l’intero abitato.
  2. Torre di Giarre, raffigurata in un quadro del Tuccari in piazza Duomo.
  3. Torri Malogrado nei pressi di Santa Maria la Strada. Sullla cui esistenza testimonia una carta topografica d’epoca borbonica;
  4. Torre di Dagala nella contrada oggi denominata “Rondinella”.
  5. Torre costiera di Archirafi, da cui il borgo prese il nome, sprofondata in mare a causa di fenomeni bradisistici.
  6. Torre in località “Femmina Morta”, costruita nel 1578, anch’essa ricadente in una proprietà privata ed in buono stato di conservazione.
  7. Torre Modò, nei pressi di Torre Archirafi, costruita nel 1567 che è l’oggetto di queste note.

La presenza in loco di alcuni cocci di terracotta databili fra il VI e il X secolo farebbero pensare ad una costruzione preesistente all’edificazione documentata del XVI secolo.

Torre del Greco (vedi).

Torre del Greco

Torre del Greco

A partire dal XVI secolo a causa di alcune scorrerie di corsari turchi la frazione Santa Tecla di Acireale venne dotata di una garitta di guardia, che tuttavia non riuscì a difendere la frazione dal pirata Luccialì, che proprio lì sbarcò il 3 maggio 1582 al comando di sette galee e ben trecento pirati. Uluch Alì nacque in Calabria, col probabile nome di Giovanni Dionigi Galeni, nel 1519. Stava per entrare in convento e divenire monaco, quando fu catturato dal corsaro algerino Khayr al-Dīn Barbarossa nel 1536 a Le Castella, presso Isola di Capo Rizzuto in Calabria. Fatto prigioniero e messo al remo, rinnegò la religione cristiana dopo alcuni anni, per poter uccidere un turco che lo aveva schiaffeggiato e non essere di conseguenza ucciso in base alla legge islamica. Diventato musulmano, sposò la figlia di un altro calabrese convertito, Jaʿfar Pascià e iniziò la propria carriera di corsaro, con grande successo. Divenne dapprima comandante della flotta di Alessandria, poi pascià d’Algeri, e infine bey (governatore) di Tripoli. Da corsaro imperversò in tutto il Mar Mediterraneo.  Subentrò a Dragut a capo della flotta ottomana, quando questi morì durante l’assedio di Malta del 1565. Considerato il miglior ammiraglio della flotta ottomana, nell’ottobre del 1571 combatté a Lepanto contro Gianandrea Doria. Fu l’unico che nella battaglia riuscì ad insidiare Don Giovanni d’Austria e poi a portare in salvo una trentina di navi turche recando ad Istanbul, come trofeo, lo stendardo dei Cavalieri di Malta dopo una precipitosa fuga durante l’infuriare della battaglia. Dopo questa battaglia ottenne dal Sultano ottomano Selim II il titolo di ammiraglio della flotta turca e l’appellativo di Kılıç Alì (Alì la Spada). Forte della nuova carica ricostruì in un anno la flotta distrutta a Lepanto e nel 1572 riuscì a sfidare ancora le flotte cristiane, anche se con scarso successo. Nel 1574 riconquistò all’impero ottomano Tunisi, che era stata espugnata l’anno prima dalla flotta cristiana. Morì nel luglio del 1587 nel suo palazzo sulla collina di Top-Hana vicino Istanbul e lasciò ai suoi numerosi schiavi e servitori case e beni di proprietà, concentrati in un villaggio da lui fondato e chiamato “Nuova Calabria”. Uluch Alì è citato (con la grafia Uchalì) nel Don Chisciotte di Miguel de Cervantes, nel racconto che fa nel Primo volume l’ex schiavo dei turchi. Cervantes ricorda in questo brano sia Uluch Alì, sia il di lui figlio ed erede. Presumibilmente aveva appreso le notizie su di loro durante la sua prigionia ad Algeri. (2)

Fortezza del Tocco (vedi).

Fortezza del Tocco

Fortezza del Tocco

La Fortezza del Tocco è un forte realizzato alla fine del XVI secolo per la difesa di Acireale dalle scorrerie barbaresche. Dopo la battaglia di Lepanto si intensificarono le scorrerie turche sulle coste italiane. Acireale venne interessata nel 1582 dal tentativo di sbarco del pirata Luccialì con al seguito sette galee turche nei pressi di Santa Tecla. Il tentativo di sbarco, che venne contrastato e respinto dalla mobilitazione della popolazione, spinse comunque la città a dotarsi di un sistema di difesa dalle scorrerie. Così alla fine del XVI secolo vennero intraprese alcune importanti opere di fortificazione da parte degli spagnoli nel litorale di Acireale, fra cui la Torre Alessandrano e la quadrangolare Torre di Sant’Anna nel borgo di Capo Mulini (1585), la Garitta di S. Tecla e la Fortezza del Tocco (Fortezza seu Bastione) sulla Timpa di Santa Maria La Scala (1592-1616). Le opere si andavano ad innestare in quello che fu il sistema di fortificazioni federiciane, d’epoca sveva. La Fortezza del Tocco venne progettata dall’ingegnere Camillo Camilliani, nella Timpa di Acireale e realizzata dall’ingegnere acese Vincenzo Geremia – detto porcellana. A Geremia si deve, nel 1624, l’aggiunta di un cannoncino portatile. La Fortezza. Nel 1626 vennero eseguiti altri lavori di ampliamento, da alcuni condannati per lavori forzati. Il forte, da cui si gode un ampio panorama sulla costa era a pianta irregolare ed ospitava un grande cannone che, sparando un colpo ad ogni avvistamento di navi pirata, avvertiva la popolazione del pericolo. Nel 1675 la torre venne utilizzata come piazzaforte militare per il cannoneggiamento della flotta francese, che stava cercando di aggirare il blocco composto dalla città e dall’esercito spagnolo durante la guerra franco-spagnola. Nel XIX secolo finite le esigenze difensive il forte fu dismesso ed abbandonato. Il cannoncino portatile sarà tolto nel 1834 e spostato alla Pinacoteca Zelantea, dove è oggi visitabile. (2)

Torre Alessandrano e Torre di Sant’Anna. (vedi)

Torre sant'Anna

Torre sant’Anna

Torre Alessandrano

Torre Alessandrano

Coeve alla fortezza del tocco le due torri in località Gazzena. Sia la Torre Alessandrano che la quadrangolare Torre di Sant’Anna nel borgo di Capo Mulini (1585), protessero la Timpa di Santa Maria La Scala (1592-1616) secondo il piano di fortificazione federiciano di epoca sveva. La Torre Sant’Anna, fu iniziata nel 1582 in corrispondenza del Capo Mulini e finita in circa un ventennio. Vi alloggiava un corpo di guardia con il compito di allertare all’avvicinarsi di navi corsare. Nel 1868 la torre di Sant’Anna  venne convertita in faro. Oggi si trova in una proprietà privata.

Torre Casalotto.(vedi)

Torre Casalotto

Torre Casalotto

La torre sorge sulla sommità di un poggio, in posizione prominente rispetto alla campagna circostante. Si tratta di un tipo di masseria fortificata, meglio conosciuta con il nome di “baglio”. Possiede una cinta muraria dalla pianta irregolare, inframmezzata di tanto in tanto da alcune garitte leggermente aggettanti. All’interno del circuito murario si distinguono due corpi di fabbrica: il primo, orientato est/ovest, rappresentava probabilmente la zona residenziale; il secondo, orientato nord/sud, ospitava probabilmente tutte le attività legate alla coltivazione del vasto territorio sottomesso al controllo della grande masseria. Non è da escludere che la parte settentrionale di quest’ultimo corpo di fabbrica un tempo fosse l’abitazione del custode del “baglio” (meglio conosciuto con il nome di “massaro”). Infine alla confluenza delle due strutture si erge, imponente, una torre dalla pianta poligonale irregolare. Quest’ultima struttura parrebbe presentare una stratificazione edilizia risalente ad epoca più antica, possibilmente medievale. (4)

Bastioncello (vedi).

Bastioncello

Bastioncello

Sulla Torre Faraglione di Acitrezza le prime attestazioni documentarie principiano dalla fine del XVII secolo. Nel 1690 era responsabile dell’edificio, su mandato della Regia Deputazione, il principe di Campofiorito con obbligo di rifornire l’edificio di armi e pezzi di artiglieria. Nello stesso periodo si muniva la torre di “…un cannone di bronzo di calibro da 2 con sua cassa e ruote, un cannone di ferro di calibro da 5…” [Russo 1994, vol. II, p. 488]. Da altra fonte si apprendono i nomi della guarnigione di stanza nell’edificio turrito: “… Filippo Grillo Caporale della torre delli Faraglioni nuovamente edificata nella marina di Jaci SS. Antonio e Filippo, eletto con la nomina di tre persone fatta dall’illustrissimo Principe di Campofiorito Soprintendente di essa torre… 6 nov. 1690. Nota che la morte di detto Filippo Grillo… in suo loco è stato eletto Francesco Grillo… con soldo onze 3 al mese… Nota che per la morte di Francesco Grillo venuta a giugno… 1699 in suo loco è stato eletto Domenico Bitto; Giovanni Mario Chiarenza artigliero della torre delli faraglioni novamente edificata eletto con la nomina di tre persone fatta dall’illustrissimo Principe di Campofiorito … 6 nov. 24 Ind. 1690. Nota che per la renunzia di detto di Chiarenza… delli 9 nov. 1691 in suo loco è stato eletto Angelo Grillo…” [ASPA, Deputazione del regno, 269 c. 188 r., 188 v., 189 r.] .Vittime di terremoto, il 6 febbraio 1693 si stanzia una somma pari a 1000 onze per il restauro delle torri “Trizza e Faraglioni“. L’edificio è correttamente citato dal Massa nel 1709 (torre “delli Faraglioni“) [Massa 1709, vol. II, p. 314] e nel 1713 il Castellalfero racconta dell’esistenza di due torri aventi medesimo toponimo e delle quali una, “…distante qualche 100 passi dal lido… custodita da tre uomini di guardia e munita d’un pezzo di cannone di ferro et altro di metallo. Attorno ad essi si trovano varie case, quali formano la terra della Trissa…”, è da considerarsi propriamente la torre del Faraglione, mentre l’altra, “… in posto più elevato e distante qualche passi 200… detta pur della Trizza qual è munita di 4 cannoni di ferro et uno di metallo e custodita da uomini di guardia…” si identifica con l’ormai scomparsa torre Trezza, al tempo armata pesantemente, come una piccola fortezza [Castellalfero, pp. 125-127]. Cinque anni dopo la torre Faraglione risulta armata di un cannone di metallo da 3, altri di ferro da 5 con cassa a ruote, due moschetti su cavalletto, polvere, palle, miccia e attrezzi ausiliari per artiglieria [Lo Cascio 2000, pag. 97]. Ancora nel 1757 ci ricordano due edifici fortificati [V. Amico, vol. I, pag. 47]. Il marchese di Villabianca menziona, nel 1797, la torre “…che domina la marina di Jaci S. Antonio, di cui tiene la soprintendenza il principe di Jaci, Reggio…” [Villabianca, Torri, p. 57]. Nel 1805 la dotazione bellica della torre risulta relativamente ridotta a un solo un maschio di bronzo e ad uno di ferro con un presidio di tre uomini [Russo 1994, vol. II, pag. 488]. L’anno successivo la Regia Deputazione evidenzia la necessità di riparazioni e manutenzioni. A tal proposito l’Organo invia al Principe di Jaci una lettera nella quale si evidenzia la “… gran rovina che sta minacciando le torri Trezza e Faraglione che sono sotto la soprintendenza di questo Signor Principe di Aci…” [ASPA, Deputazione del Regno 281, c. 17 v.] e successivamente si esprimono lamentele per la mancata edificazione di una scala (il documento non specifica in quale delle due torri si avvertisse la necessità di costruire una scala). Nel 1807 si registra un’ulteriore esortazione da parte della Regia Deputazione affinché si apprestino le urgenti riparazioni relative ad entrambe le strutture [ASPA, Deputazione del Regno 281, c. 84]. Entro la prima metà del XIX secolo la torre ospita solo un cannone di metallo e uno di ferro [Archivio Storico del Comune di Acireale, Verbale di consegna al Ten. Cervella del 7 ottobre 1839, Registro torri e fanti 1839]. Nel 1986 si restaura la torre con interventi di consolidamento e sgombero. La torre di Acitrezza, realizzata secondo una pianta rettangolare di circa 7 per 8,20 m. e un’altezza attuale di circa 10m. (in origine forse 15 metri), si distingue per una tecnica edilizia composta da pietra lavica leggermente sbozzata e inzeppature di laterizi; i cantonali si presentano rinforzati da pietre squadrate, ancora esistenti in particolar modo lungo il lato orientale della struttura (probabilmente anche causa recenti restauri). Inoltre l’edificio si presenta leggermente scarpato, con un piccolo ingresso ad arco lungo il lato occidentale. E’ impossibile ottenere una perfetta lettura del complesso: moderni edifici letteralmente offuscano la fortificazione e un notevole inalzamento del piano di calpestio, particolarmente evidente lungo il lato occidentale, non permette di percepire la costruzione per l’intera sua altezza. Un sottile marcapiano in conci lavici divide dal piano terra il primo piano, che è caratterizzato da tre superstiti muri perimetrali e dai resti, lungo il lato occidentale, di una piattaforma aggettante, sorretta da mensoloni su doppio ordine in pietra lavica sagomata. Cronologia – edificazione risalente al XVII sec. (3)

Castello di Aci (vedi).

Castello di Aci

Castello di Aci

La fortificazione di incerta origine, fu il fulcro dello sviluppo del territorio delle Aci nel medioevo. Durante i Vespri siciliani, fu assoggettato alla signoria di Ruggero di Lauria, quindi in epoca aragonese fu di Giovanni di Sicilia ed infine degli Alagona venendo più volte assediato. Attualmente è sede di un museo civico. Il promontorio basaltico dove il castello sorge, era separato dalla terra ferma da un braccio di mare, che fu completamente colmato dalla eruzione del 1169. Storicamente un primo castello fu edificato nel VII secolo d.C. (secondo altri nel VI secolo) dai bizantini su di una preesistente fortificazione di periodo romano forse del 38 d.C. e chiamato Castrum Jacis e volto alla difesa della popolazione dalle scorrerie. Il castello di Acicastello è solo un castello federiciano. Nasce dopo il castello Ursino ed è stato fortificato solo da e per gli Alagona. Il Kastron ed il Castrum di Aci vanno ricercati altrove. Distrutta ed occupata la forte Taormina, nell’estate del 902 l’emiro Ibrahim stava per assaltare il castello di Aci. La popolazione sicura della sconfitta preferì capitolare, pagare la giziah e deporre le armi consegnandosi ai musulmani. Il paese fu lasciato intatto ma il castello e le fortificazioni saranno rase al suolo. Nel 909 il califfo ‘al-Mooz, fece riedificare sulla rupe una fortificazione (qalat), che doveva far parte di un più vasto sistema difensivo atto a proteggere l’abitato. Nel X secolo sotto la dominazione araba il borgo fu chiamato ‘Al-Yâg o Lî-Yâg, fu un importante centro della Sicilia orientale (secondo Al-Muqaddasi, storiografo che scrisse il Kitab ‘ahsan ‘at taqasim ). Forte e preminente rimase però l’impronta bizantina, tanto che lo scrittore Ibn al-Athir, nella sua opera Kamil ‘at tawarih, racconta di una Aci quale centro della resistenza. Giunti i conquistatori normanni Roberto il Guiscardo e Ruggero d’Altavilla, verrà introdotto in tutta la regione il sistema feudale. Vasti territori saranno concessi a vescovi e milites. In questo contesto nel 1092 anche il castello di Aci ed il territorio circostante furono concessi all’abate e vescovo di Catania Angerio da S.Eufemia. Chiamato Castrum Jatium, si trattò del primo atto riguardante la Terra di Aci. Le pertinenze erano costituite dai territori degli attuali comuni di Aci Castello, Aci Sant’Antonio, Acireale, Aci Catena, Aci Bonaccorsi, Valverde (già Aci Valverde). Il geografo arabo Edrisi descriverà nel suo Libro di Ruggero la terra di Aci come territorio importante. Il 17 agosto 1126 il Vescovo abate Maurizio di Catania ricevette nel castello di Aci le reliquie di sant’Agata, riportate in patria da Costantinopoli dai cavalieri Goselmo e Gisliberto. All’interno di un ambiente che probabilmente era una piccola cappella, sono ancora visibili alcune tracce di un affresco che ricorda l’avvenimento. L’eruzione del 1169 fu preceduta il 4 febbraio da uno dei terremoti più funesti che si ricordino. Le lave di quella eruzione investirono il territorio di Aci e, si narra, arrivarono sino al castello, colmando il braccio di mare che lo separava dalla costa. In quella occasione parte della popolazione si spostò nella cosiddetta contrada di Aquilio (derivante dal console romano Manlio Aquilio che si narra lì nel 104 a.C. sedò un tumulto di folla) e che sarebbe la odierna zona di Anzalone, da cui prese il nome di Aci Aquilia. (Secondo altri, invece, il nome risalirebbe direttamente al periodo romano). Quindi il castello ritornerà al demanio nel 1239 quando l’imperatore Federico II di Svevia rimosse il vescovo Gualtiero di Palearia. Nel 1277 il borgo attorno al castello contava 1.200 abitanti («183 fuochi»). Alla fine del XIII secolo, durante il breve periodo angioino il castello passò di nuovo al vescovo di Catania. Durante i Vespri, a cui il borgo parteciperà, Federico III d’Aragona concesse l’«Università di Aci» all’ammiraglio Ruggero di Lauria nel 1297. La concessione prevedeva che annualmente, il giorno di sant’Agata, venisse pagato un canone di ben 30 once d’oro al vescovo di Catania, cosa che poi in realtà non avvenne. Fu il riconoscimento ufficiale della «Università di Aci», formata dal castello e dal territorio delle Aci. Dopo alcuni anni, quando Ruggero di Lauria passò con gli angioini contro la corte aragonese, il re Federico fece espugnare il castello, usando una torre mobile di legno chiamata “cicogna”, riprendendo così con la forza la fortezza nel demanio. Nel 1320 Federico III d’Aragona cedeva il territorio del castello di Aci (ormai di proprietà di Margherita di Lauria, discendente di Ruggero) a Blasco II Alagona al quale successe il figlio Artale I . Nel 1326 avvenne il saccheggio da parte delle truppe di Roberto d’Angiò comandate da Beltrando Del Balzo (italianizzazione di “Beltrand de Boiax”) . Nel 1329 il territorio fu nuovamente sconvolto da un terribile terremoto e da una eruzione che ne investì in parte il territorio. Dalla nuova ricostruzione, stavolta più a nord nasceva «Aquilia Nuova» (nucleo iniziale della futura Acireale), così chiamata per distinguersi dalla precedente che fu detta «la Vetere». Nel 1353 morì nel castello di Aci il re Ludovico d’Aragona, di soli 17 anni. Nel 1354 il territorio di Aci fu devastato ed il castello espugnato dal maresciallo Acciaioli, inviato in Sicilia da Ludovico d’Angiò. Nel 1356 il governatore di Messina, Niccolò Cesareo, in seguito a dissidi con Artale I Alagona, richiese rinforzi a Ludovico d’Angiò, che inviò il maresciallo Acciaiuoli. Le truppe, assistite dal mare da ben cinque galee angioine saccheggiarono nuovamente il territorio di Aci, assediando il castello. Proseguirono quindi in direzione di Catania cingendola d’assedio. Artale I Alagona respinse l’attacco e quindi contrattaccò con la flotta siciliana mettendo in fuga la flotta angioina. La battaglia navale, che si svolse fra la borgata marinara catanese di Ognina ed il castello di Aci, fu detta «Lo scacco di Ognina» segnò una svolta definitiva a favore degli aragonesi nella guerra del Vespro. Durante la rivolta anti-aragonese Artale II Alagona, insorse contro il re Martino il Giovane (nipote di Pietro IV d’Aragona), asserragliandosi nel castello. Solo dopo un lungo assedio del re il castello fu espugnato. Si narra che riuscì nell’impresa guastando il sistema di approvvigionamento idrico del castello, approfittando dell’assenza di Artale II (1396) . Nel 1398 sempre il re Martino il Giovane farà dichiarare dal Parlamento generale di Siracusa che «… le terre acesi dovevano restare in perpetuo nel regio demanio», probabilmente per evitare che tornasse in mano ai baroni e favorendo così lo sviluppo dei tanti borghi che componevano l’«Università». Nel 1399 venne dato un privilegio di «esenzione dalla dogana» al territorio. Nel 1402 il re Martino il Giovane fece del castello la sua dimora insieme alla seconda moglie Bianca di Navarra. Nel XV secolo la terra di Aci passerà di mano diverse volte, fino al 1530. Nel 1421 il viceré di Sicilia Ferdinando Velasquez acquisì per 10.000 fiorini il territorio del castello e quello del vicino Bosco d’Aci. Il territorio quindi venne rinfeudata con molto malcontento popolare. Nel 1422 per sedare il malcontento della popolazione, il Velasquez su ordine del re Aragonese Alfonso il Magnanimo concesse la facoltà di organizzare una fiera senza dazi, chiamata la Fiera Franca, che ebbe notevole importanza. Dalla morte di don Velasquez (1434), la terra passerà all’infante di Spagna don Pietro e quindi ritornerà al re Alfonso (1437). Nel 1439 il castello e la sua università passeranno alla famiglia Platamone, ai Moncada, ai Requisens e poi nel 1468 ai baroni di Mastrantonio. Il 28 agosto del 1528, gli abitanti offrirono all’imperatore Carlo V la somma di 20.000 fiorini, per rientrare nel Regio Demanio e riscattarsi dal potere baronale. L’imperatore accetterà l’offerta il 5 luglio del 1530 concedendo il mero et misto impero, confermando inoltre la concessione della Fiera Franca. Nel sigillo della nuova universitas reale il castello di Aci fu il simbolo principale insieme ai faraglioni di Aci Trezza. Dalla metà del XVI secolo si perderà la Università di Aci: il castello sarà distinto di fatto da Aquilia Nuova e dai casali, che nel frattempo si renderanno indipendenti, verrà quindi destinato prima a caserma e poi a carcere. Nel 1647 il castello verrà ceduto da Filippo IV di Spagna, per 7500 scudi al Duca Giovanni Andrea Massa. Subirà quindi i danni del Terremoto del Val di Noto dell’11 gennaio 1693. Rientrerà nel demanio comunale in epoca borbonica nel XIX secolo. Nello stesso secolo Giovanni Verga vi ambienterà la novella Le storie del Castello di Trezza. Negli anni 1967-1969 verrà restaurato, e quindi dal 1985 è visitabile e sede di un Museo Civico. (2)

Torre di Ognina.

Torre di Ognina

Torre di Ognina

Pochissime notizie storiche ricordano questa piccola fortificazione durante i secoli passati. Sconosciute sono le origini: la tradizione vorrebbe che la torre fosse stata edificata sui resti del castello greco di “Italicon”, ricordato da Diodoro Siculo e, sembra, ancora in parte esistente fino al sec. XVI [S. Mazzarella, R. Zanca 1984, pag. 292]. Sebbene Camilliani ricordi della cala di Ognina, della piccola chiesa a ridosso del porto e del relativo borgo, non fa alcuna menzione della torre [C. Camilliani ed. 1877, I, p. 325], che per certo doveva esistere secondo quanto risulta dalla descrizione di T. Spannocchi, contemporaneo del Camilliani: “…Avvi una torre fabbricata al presente la quale se bene è alquanto lontanetta però servirebbe per detta guardia et è di bona fabbrica…” [T. Spannocchi ed. 1993, XI]. Attualmente, infatti, la torre è molto arretrata rispetto all’attuale porto. Questa incongruenza trova spiegazione in un catastrofico fenomeno naturale: nel 1381 una colata lavica interra parzialmente la cala di Ognina [S. Mazzarella, R. Zanca 1984, pag. 292], guadagnando terra al mare e restringendo l’accesso delle imbarcazioni al porto. Forse la torre venne edificata prima di questo evento naturale e, dunque, a ridosso del mare. Al di là di queste poche notizie storiche, non esiste alcun elemento che permetta di datare con esattezza la struttura, che, in via del tutto ipotetica, potrebbe collocarsi tra i secoli XIV e XV [S. Mazzarella, R. Zanca 1984, pag. 294].

Garrite di Ognina e Piazza Europa.

Garrite di Ognina e piazza Europa

Garrite di Ognina e piazza Europa

Del tutto simili a quella di S. Tecla, le garritte di Ognina e di Piazza Europa sono situate la prima nei pressi del cosiddetto “Porto di Ulisse” e la seconda su di uno sperone di roccia lavica a ridosso di Piazza Europa. Entrambe presentano una architettura del tutto simile nelle dimensioni e nella muratura e sono espressione di una consolidata tecnica costruttiva militare spagnola durante il XVI secolo.

Garrita del Castello Ursino.

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Garrita del Castello Ursino

Una terza garrita si trova dentro il fossato del castello Ursino. Questa garrita, a differenza delle altre, non è prospiciente il mare e quindi può apparire in una posizione anomala. In effetti la garrita originariamente, come lo stesso castello Ursino, si affacciava sul mare. Il definitivo allontanamento dal mare e l’innalzamento del livello del terreno circostante al castello fu dovuto alla colata lavica del 1669 che lo cinse quasi totalmente e sommerse i bastioni.

(1) “I pirati nel litorale della Sicilia sud-orientale” di Melchiorre Trigilia . Articolo pubblicato nella rivista Pagine dal Sud.

(2) Wikipedia

(3) www.medioevosicilia.eu

(4) www.mondimedievali.net

(5) Comune di Giardini Naxos

Pagine Etnanatura:

  1. Torre Vignazza.
  2. Torre Modò.
  3. Torre del Greco.
  4. Chiazzette.
  5. Torri Alessandrano e sant’Anna
  6. Torre Casalotto
  7. Bastioncello.
  8. Castello di Aci.
  9. Catania fortificata
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I luoghi del cuore

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26-03-2014 07-32-51Il “Bastione degli infetti” partecipa alla manifestazione “I luoghi del cuore“, censimento dei luoghi italiani da non dimenticare promosso dal FAI, Fondo Ambiente Italiano. Etnanatura invita tutti gli amici a votare per questo sito che tanta importanza ha avuto nella storia di Catania.

 

Per esprimere la vostra preferenza a favore del “Bastione degli infetti” cliccate qui.

Il bastione degli infetti si trova sulla collina di Montevergine, antica acropoli di Catania. Già Cicerone, parlando dei furti di Verre, definisce il tempio di Cerere, Che doveva sorgere dove oggi troviamo i resti del Bastione degli infetti come tempio di gran culto. Ecco la citazione di Cicerone: “Nella parte più interna si trovava un’antichissima statua di Cerere, che le persone di sesso maschile non solo non conoscevano nel suo aspetto fisico, ma di cui ignoravano persino l’esistenza. Infatti a quel sacrario gli uomini non possono accedere: la consuetudine vuole che le celebrazioni dei riti sacri avvenga per mezzo di donne sia maritate che nubili…Esiste un’antica credenza che si fonda su antichissimi documenti e su testimonianze greche, che tutta l’isola siciliana sia consacrata a Cerere e Libera. Non è una profonda persuasione, a tal punto da sembrare insito e connaturato nel loro animo. Infatti credono che queste dee siano nate in quei luoghi e le messi in quella terra per prima siano nate in quella terra per prima siano state scoperte, e che Libera, che chiamano Proserpina, sia stata rapita da un bosco degli Ennesi”. In seguito il vescovo Leone II detto il Taumaturgo fece distruggere, come ricordano gli Atti Latini, il tempio utilizzando le sue pietre per costruire l’allora Cattedrale di Catania che corrisponde con l’attuale chiesa di sant’Agata la Vetere (vedi). Le Mura di Carlo V erano un complesso murario che venne fatto realizzare a Catania dall’imperatore Carlo V a difesa della città: esse erano costituite da undici bastioni ed avevano sette porte di accesso alla città. L’incarico della costruzione venne dato all’architetto Antonio Ferramolino all’inizio del XVI secolo ma la costruzione andò avanti con molta lentezza vista la complessità dell’opera. Esse racchiudevano completamente la città del tempo e la difendevano dai pericoli esterni. Ma, prima l’eruzione dell’Etna del 1669 e poi il terremoto del 1693 le rovinarono gravemente, ma la loro scomparsa definitiva si deve al piano di rinnovo urbano del XVIII secolo. Una delle poche testimonianze rimaste è costituita dal Bastione degli infetti costruito nel 1556 ad opera del vicerè Vega. Accanto ai resti del Bastione degli infetti ritroviamo la Torre del Vescovo. La torre si ritene fondata agli inizi del XIV sec. (1302 d.C.?) ed è parte integrante dell’antica cinta muraria aragonese. Venne acquistata dal vescovo Antonio de Vulpone e trasformata, insieme all’area antistante, in lazzaretto. L’edificio si caratterizza per la pianta quadrata e la tecnica edilizia (non uniforme) costituita da pietrame lavico appena sbozzato, inzeppato con frammenti di terracotta e legato insieme da malta. I cantonali sono rinforzati con blocchi di pietra lavica squadrati. Della torre si conservano solo tre dei quattro muri perimetrali, solo quelli rivolti verso l’esterno della cinta muraria. Si tratta, probabilmente, di un semplice accorgimento architettonico: in caso di assedio e di conquista della cinta muraria, gli attaccanti non avrebbero potuto utilizzare la torre contro la città, essendo essa, in corrispondenza del lato meridionale, esposta al tiro degli arcieri. L’edificio conserva solo le saettiere del primo piano, sebbene sia probabile che esistesse anche una seconda elevazione, oggi del tutto scomparsa. Il pavimento di entrambi i piani doveva essere ligneo. Non si conserva merlatura e la scarpa del pianterreno appare come aggiunta posticcia di tempi relativamente recenti. Nel XVI sec. il lazzaretto si estese, comprendendo oltre alla Torre del Vescovo anche il limitrofo bastione di Carlo V. Il nuovo complesso prese il nome di “Ospedale degli Infetti“» (le notizie sulla torre si devono al sito medioevosicilia.eu).

Pagina Etnanatura: Bastione degli infetti.

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Piano Margi

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27-08-2014 09-12-47Nell’altipiano di Margi, in cima ad una collina, si ritrovano i resti antichi di un accampamento romano. La costruzione rispecchiava la tipica domus romana, con pavimento in pietre e le pareti in coccio misto a calce idraulica. Al centro del rudere sono ancora visibili le colonne di un tempietto. Probabilmente in questo luogo sostarono le truppe romane di Sesto Pompeo  in ritirata durante la guerra civile contro Ottaviano, prima di portarsi verso Tindari. Alcuni racconti popolari narrano che proprio in quest’accampamento riposarono una notte i fratelli martiri Alfio, Filadelfo e Cirino in transito verso Lentini. Anche San Filippo d’Agira, proveniente da Limina e diretto a Mongiuffi Melia, Calatabiano e Agira, sostò in questo luogo a evangelizzare. Si racconta che, attratto dalla magia del luogo, Federico II, proveniente da Taormina e diretto all’abbazia di San Pietro e Paolo dell’Agrò, riposò in questo luogo alcune ore seduto su un sedile di pietra ancora esistente.

Notizie tratte da “Polissena e la valle del Chiodaro” di Giovanni Curcuruto che ringraziamo per le preziose informazioni. Ringraziamo anche Fabio Luchino, guida insostituibile e appassionato conoscitore di orchidee selvatiche di cui è ricco l’altipiano di Margi (a tal proposito vi consiglio la sua pagina web Orchidee dei peloritani).

Sito Etnanatura: Piano Margi.

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Monte Castellaccio

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Sito Etnanatura: Monte Castellaccio,

Ci piace presentarvi monte Castelaccio come un luogo da fiaba dove anticamente (non sappiamo quando e se) esistevano ricche miniere di oro alle quali attingevano i greci prima e poi i romani, i saraceni e tutti quelli che hanno fatto della Sicilia terra di conquista (e dico ciò con un’accezione non sempre negativa considerando che peggio dei siciliani nessuno ha mai amministrato le nostre terre).

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Sant’Agata al carcere

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Sito Etnanatura: Sant’Agata al Carcere.

La chiesa di Sant’Agata al Carcere è costruita su ciò che resta del bastione del Santo Carcere, appartenente alle mura di Carlo V del XVI secolo, che difendeva la porta nord (chiamata porta del Re) della città di Catania. Secondo la tradizione in questo luogo venne tenuta prigioniera sant’Agata prima di subire il martirio. La chiesa presenta elementi relativi a secoli diversi. La parte prospettuale risale al XVIII secolo in quanto venne distrutta dal terremoto del 1693. La facciata, su un originale disegno di Giovan Battista Vaccarini, è pertanto in stile barocco siciliano mentre l’antico portale strombato è in stile romanico, e fu recuperato dalla cattedrale. Il portale, unico esemplare in Sicilia dello stile Romanico Pugliese, venne realizzato in marmo bianco con arco a tutto sesto ed è retto da sei colonnine decorate in tre modi diversi (rispettivamente dall’esterno verso l’interno a scacchiera, a spina di pesce e a losanghe), il cui motivo si ripete lungo le strombature dell’arco stesso, e da due pilastrini che fungono da stipiti su cui sono figure e simbologie bibliche, animali reali o immaginari, intrecciati tra loro da una modanatura a motivo floreale.

 

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