Ipogeo quadrato

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15-07-2014 19-32-24

Il termine Ipogeo, di solito adoperato per identificare una cavità artificiale o naturale,  viene anche utilizzato per identificare un  edificio funebre. l’Ipogeo romano di Catania detto “quadrato” per la sua forma e per distinguerlo dal vicino Mausoleo Modica, a pianta circolare, è  lungo circa 15 metri e largo 12. E’ una tomba di età romana imperiale (I-II sec. d.C.), tra le poche sopravvissute delle vaste necropoli di Catina che occupavano l’area a nord dell’attuale centro storico di Catania. Presenta un ingresso ad ovest cui corrisponde un angusto corridoio che conduce ad un loculo di fronte, a seguito di una scalinata che lo ingombrava per metà; ai due lati corrispondevano due piccole nicchie atte forse a contenere altrettante urne funerarie e aperte all’esterno da strette feritoie, di cui rimane la sola a nord, a seguito della demolizione della parete sud per ricavare la bocca di una fornace per la calce ad uso dell’allora vicino monastero dei Padri Riformati cui apparteneva. Si presenta costruito ad opus incertum e coperto da una volta in mattoni di terracotta. Il Principe di Biscari, sulla base della robustezza della fabbrica e notando i resti di una copertura a volta a botte ne supponeva un secondo piano, verosimilmente a piramide (spinto probabilmente anche dalla considerazione della forma in pianta quasi perfettamente quadrata), così come più tardi confermava il Serradifalco.

Sito Etnanatura: Ipogeo quadrato.

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Morgantina

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10366002_10202995668965207_9096862200376238883_nMorgantina è una antica città sicula e greca, sito archeologico nel territorio di Aidone. La città fu riportata alla luce nell’autunno del 1955 dalla missione archeologica dell’Università di Princeton (Stati Uniti). Gli scavi sinora compiuti consentono di seguire lo sviluppo dell’insediamento per un periodo di circa un millennio, dalla preistoria all’epoca romana. L’area più facilmente visitabile, recintata dalla Sovraintendenza, conserva resti dalla metà del V alla fine del I secolo a.C., il periodo di massimo splendore della città. Da questo sito provengono importantissimi reperti archeologici come la Venere di Morgantina, attualmente custodita presso il museo archeologico di Aidone cui è giunta il 17 marzo 2011 dopo il contenzioso fra Italia e Stati Uniti dove era esposta presso il Getty Museum a Malibu, e il Tesoro di Morgantina, anch’esso restituito. La città antica sorgeva su un ondulato e allungato pianoro, scosceso ai fianchi e culminante nel monte Cittadella (578 m s.l.m.). Posto a sbarramento della valle del Simeto e dei suoi tributari, il sito controllava una vastissima zona, delimitata dalle Madonie e dall’Etna a nord, dal mar Ionio a est, dagli Erei meridionali a sud e a ovest. Si trattava di un passaggio obbligato delle vie di comunicazione tra la costa orientale e l’interno della Sicilia. Ai suoi piedi la fertile pianura del Gornalunga e i ricchi pascoli che lo circondano alle spalle, costituivano un ulteriore vantaggio per l’insediamento. Le più antiche tracce di frequentazione del sito appartengono alla prima età del bronzo (2100 -1600 a.C.), epoca a cui risale un villaggio di capanne circolari e rettangolari che occupò il colle di Cittadella (contrada “Terrazzi di San Francesco”). Il villaggio appartenne alla Cultura di Castelluccio, caratterizzata da un’elementare organizzazione civile, su base tribale, e dal possesso di rudimentali tecniche di artigianato domestico e agricole e alla successiva cultura di Thapsos. Nel sito sono state rinvenute anche ceramiche micenee e submicenee. A partire dal XIV secolo a.C. sino al XI secolo a.C. la popolazione dei Siculi (Sicilia), provenienti dall’Italia centrale, raggiunse in ondate successive la Sicilia orientale, cacciando gli indigeni nella parte occidentale. Secondo la leggenda un gruppo di Morgeti guidato dal mitico re Morges, fondò nel X secolo a.C. la città di Morgantina, sul colle della Cittadella. Per oltre trecento anni i Morgeti occuparono il luogo, integrandosi con le altre popolazioni affini dell’interno e prosperando grazie allo sfruttamento agricolo della vasta pianura del Gornalunga. Nella seconda metà dell’VIII secolo a.C., era iniziata in Sicilia la colonizzazione greca e verso la metà del VI secolo a.C. Greci di origine calcidese giunsero a Morgantina risalendo la valle del Simeto e del suo affluente Gornalunga; si insediarono nella città convivendo abbastanza pacificamente con i precedenti abitanti, come sembra testimoniare la mescolanza di elementi culturali nei corredi funebri. I coloni calcidesi assimilando la religiosità dei Morgeti trasformarono la Dea Madre nelle loro divinità Demetra e Persefone per come testimoniato dai famosi ACROLITI teste marmoree complete di mani e piedi con il corpo composto da materiale deperibile risalenti agli anni 525-510 a.C. La città sembra venisse distrutta una prima volta alla fine del secolo, ad opera del tiranno di Gela, Ippocrate. Nel 459 a.C., la città venne presa e distrutta da Ducezio, condottiero dei Siculi, durante la rivolta contro il dominio greco e fu probabilmente in seguito abbandonata come centro abitato. Dopo la disfatta di Ducezio nel 450 a.C. il territorio di Morgantina passò nell’orbita di Siracusa e fu in seguito ceduto a Camarina nel 424 a.C. in cambio di una somma di denaro. Nel 396 a.C. la città fu conquistato da Dionisio I, tiranno di Siracusa, durante una campagna militare per riportare le comunità dell’interno sotto il suo dominio. Ma la Polis mal sopportava il giogo siracusano tanto che nel 392 a.C. ospitò l’esercito punico guidato da Magone. Nella guerra combattuta in Sicilia fra Dione, l’allievo del grande filosofo Platone, e suo nipote Dionisio II il giovane, Morgantina aderì alla causa del condottiero siracusano per riprendersi la propria autonomia. Intorno al 340 a.C. Timoleonte aveva sconfitto l’esercito punico e si era sbarazzato dei vari tiranni delle Polis: salito al potere si impadronì del territorio e la città venne ricostruita sul pianoro di Serra Orlando: furono edificate le nuove mura e se ne delineò l’assetto urbanistico a schema ortogonale, un nuovo Santuario venne eretto in onore di Demetra e Persefone e fu impiantato l’Ekklesiasterion con il Bouleterion. La popolazione aumentò parecchio con l’arrivo di nuovi coloni dalla Grecia. Agatocle chiedendo ed ottenendo l’aiuto di 1.200 soldati di Morgantina conquistò, nel 317 a.C., Siracusa e fece realizzare l’agorà di Morgantina. Il massimo splendore fu quindi raggiunto nel III secolo a.C. durante il lungo regno di Gerone II (275-215 a.C.) e la città arrivò a contare circa 10.000 abitanti. Durante la prima guerra punica, Morgantina insieme a tutta la Sicilia orientale sotto Gerone II fu alleata dei Romani. Morto Re Gerone II, durante la seconda guerra punica Morgantina e le altre città siciliane passarono dalla parte dei cartaginesi (Tito Livio): Infatti il giovanissimo Geronimo, nominato Re dal Consiglio dei 15 saggi istituito dal nonno Gerone II, sconfessò l’alleanza con Roma e ricevette alcuni emissari di Annibale il grande (IV Barq) i due fratelli Ippocrate ed Epicide (di origini siracusane). Morto Geronimo a Leontini nel 213 a.C. a Siracusa venne istituita la cosiddetta quarta Repubblica dal Senato ma il potere assoluto era nelle mani di Ippocrate ed Epicide che cercarono di fronteggiare le legioni romane guidate dal Console Claudio Marcello. Morgantina diventata la base operativa della lega siculo-punica si sbarazzò del presidio romano e nella zecca furono coniate parecchie monete della serie SIKELIOTAN. Attraverso le fonti storiche sappiamo che l’esercito punico di Imilcone (mandato da Annibale) e quello siracusano di Ippocrate trovarono rifugio entro le mura fortificate di Morgantina. La città non si arrese neanche dopo la caduta di Siracusa nel 212 a.C. e fu assediata e distrutta nel 211 a.C., da Marco Cornelio Cethego che la consegnò all’ispanico Moerico e ai suoi mercenari ispanici quale premio per avere permesso al Console Claudio Marcello la conquista di Siracusa, difesa da Archimede. Anche la serie di monete di bronzo HISPANORUM coniate durante il dominio di Moerico sono servite agli studiosi per dimostrare la scoperta scientifica come pure i denarii romani emessi prima del 211 a.C. Dopo la conquista romana le mura vennero abbattute e l’abitato si restrinse notevolmente, ma la città continuò a vivere come importante nodo commerciale per la produzione di terrecotte nelle fornaci e soprattutto per la produzione di cereali (grano, orzo), dell’olio e del vino ricavato dalla famosa Vite Murgentina. (Marco Porcio Catone – Columella – Plinio il vecchio). Venne costruito al centro dell’Agorà il Macellum e molti edifici pubblici (Bouleterion-Pritaneo) furono utilizzati dai conquistatori romani come tabernae e termopolium. In breve la Polis venne progressivamente trasformata in un oppidum romano utilizzato dalle varie legioni di passaggio per la Sicilia. Diodoro Siculo ricorda che a Morgantina, che si era anch’essa ribellata come Henna (Enna), venne tenuto prigioniero Euno, capo della rivolta servile del 135 a.C., repressa dalle legioni romane. Anche nella seconda guerra servile, (105-101 a.C.), Morgantina venne assediata dal capo dei ribelli Salvio e forse venne temporaneamente conquistata. Sembra abbia parteggiato per Sesto Pompeo nella sua lotta contro Ottaviano, ma Strabone, poco dopo, la ricorda tra le città scomparse e i dati archeologici confermano che, intorno al 30 a.C., essa venne gradualmente abbandonata. In Sicilia, in quegli anni, subirono il medesimo destino svariate antiche città, ne sono un esempio Abacena e Phoinix. I resti furono individuati per la prima volta alla fine del XIX secolo dall’archeologo Paolo Orsi e inizialmente la città venne identificata con Herbita. Il ritrovamento di alcune monete in bronzo e la concordanza dei dati archeologici con le notizie riportate dalle fonti permisero quindi il riconoscimento con l’antica Morgantina. La zona archeologica occupa un’area di oltre venti ettari. Della città ellenistica restano nell’area recintata notevoli resti: diversi edifici pubblici, per lo più articolati intorno alla piazza dell’Agorà (ginnasio o “stoà nord”), “stoà orientale” e “occidentale”, il pritaneo, l’ekklesiasterion, il duplice “santuario dell’Agorà”, il granaio pubblico, la “Grande Fornace”, il teatro o koilon e il Macello romano e importanti case di abitazione, riccamente ornate da mosaici (case “del Capitello dorico”, “del Mosaico di Ganimede”, “della Cisterna ad arco”, “delle Ante fisse”, “dei Capitelli tuscanici”, “del Magistrato”, e ancora, la “Casa Fontana” e la “Casa sud-est”). Le altre emergenze, pur servite da sentieri, non sono visitabili senza una competente guida. È prevista la realizzazione di un parco con corsi preordinati, pannelli informativi ed attrezzature ricettive turistiche. I numerosi reperti provenienti dagli scavi sono conservati nel Museo di Aidone. A lato di un’ampia strada in acciottolato che costituiva l’asse viario centrale della città, si notano i resti degli edifici pubblici del centro politico ed amministrativo della polis, disposti intorno alla piazza principale o agorà, che occupa un pianoro delimitato da due rilievi ad ovest (più esattamente sud-ovest) e ad est (nord-est), e seguendo il dislivello naturale, è suddivisa in una piazza alta, verso nord (nord-ovest), delimitata da portici (stoài) su tre lati, e una piazza bassa verso sud (sud-est). Sul lato nord l’agorà è limitata da un lungo portico, di circa 90 m identificato come gymnasium (ginnasio), luogo destinato alle attività sportive dei giovani. Sul portico si affacciavano vari ambienti di servizio (spogliatoi e bacini per le abluzioni). Fu realizzato nel III secolo a.C., sotto il regno di Gerone II. Alla sua estremità orientale sono stati rimessi in luce (1982-1984) i resti di una fontana monumentale (ninfeo) a doppia vasca, preceduta da un’ampia scalinata ed ornata con colonne a fregi dorici. Costruita verosimilmente nella seconda metà del III secolo a.C., era dedicata alle Ninfe e fu distrutta violentemente, forse da un terremoto, nel corso degli ultimi anni del I secolo a.C. Sul lato occidentale la piazza era limitata da una serie di botteghe, precedute da un altro lungo portico, le cui tracce sono oggi poco visibili. Sull’opposto lato orientale restano visibili le basi del colonnato del terzo portico (lungo 87 m). L’edificio aveva funzioni polivalenti e poteva essere destinato a sede dell’amministrazione della giustizia popolare, a scuola e a luogo riparato d’incontro per gli affari. Alla sua estremità settentrionale, verso il ginnasio, sono chiaramente riconoscibili gli avanzi di un bouleuterion (luogo di riunione del consiglio cittadino) a pianta bipartita, con all’interno un muro a semicerchio e un podio rettangolare, attorno al quale dovevano essere disposti i seggi dei membri del consiglio. Nella piazza superiore, spostato verso sud e verso est, s’incontra un edificio di epoca romana (prima metà del II secolo a.C., con orientamento divergente da quello degli edifici ellenistici, costituito da un complesso di tredici botteghe d’uguali dimensioni, disposte sui lati nord e sud di un cortile porticato, dotato al centro di un’edicola circolare. Si tratta di un macellum o edificio per mercato, uno dei più antichi conosciuti. Sul lato ovest, ove è l’ingresso, è inglobata un’area sacra greca preesistente, con ampio altare rettangolare. Sul lato sud della piazza superiore il dislivello con l’agorà bassa viene superato per mezzo di una gradinata di forma trapezoidale, lasciata incompleta verso est, che veniva inoltre utilizzata per le riunioni dell’assemblea cittadina (ekklesiasterion) ed è perfettamente integrata nell’insieme urbanistico. È qui che l’assemblea popolare della polis, si riuniva per assumere le più importanti decisioni. La piazza inferiore è fiancheggiata sul lato ovest dal teatro, che si appoggia alle pendici della collina occidentale. In una prima fase, databile alla metà del IV secolo a.C. sembra aver avuto una forma trapezoidale, mentre fu poi rifatto con cavea a ferro di cavallo, tra la fine dello stesso secolo e gli inizi del III secolo a.C., contemporaneamente alla costruzione della scalinata utilizzata come ekklesiasterion, che ne riprende la forma originaria. Due corridoi laterali (pàrodoi) permettono l’accesso all’orchestra (lo spazio entro il quale si muoveva il coro), chiuso dall’edificio scenico. Questo era costituito da un prospetto architettonico fisso, che doveva essere ornato da scenografie mobili sorrette da travi lignee, i cui alloggiamenti sono visibili su un grosso masso squadrato triangolare. Il teatro era dedicato a Dioniso, il cui nome compare sull’alzata di uno dei gradini, formanti la cavea. Questa, con circa quindici gradini suddivisi in più settori era realizzata in modo da consentire un sorprendente effetto acustico, ancor oggi apprezzabile, ed è sostenuta da un robusto muro di contenimento in blocchi accuratamente squadrati. Nei pressi sono visibili i resti di una conduttura d’acqua in elementi di terracotta ad incastro, provvisti di spioncino ellittico. Accanto al teatro e in stretta relazione con esso, in posizione elevata sorgeva il santuario di Demetra e Kore, le due divinità protettrici della città. L’edificio sacro, cui s’accede dal lato occidentale, era costituito da due settori ben distinti, articolati intorno a due cortili. Il settore settentrionale, preceduto da una vasca per le purificazioni ed una stanzetta per le offerte, comprendeva diversi ambienti, attorno all’ampio cortile in acciottolato, destinati alla sosta dei fedeli e alla produzione in loco d’oggetti votivi in terracotta, attestata anche da una ben conservata fornace nell’angolo nord-est. Il settore meridionale, destinato al culto, s’articola attorno ad un grande altare cilindrico, ancora coperto da tracce dell’originario intonaco. Accanto ad esso, circondato da un basso muretto circolare, vi è un bothros o fossa sacra, per libagioni ed offerte alle divinità dell’oltretomba. Al momento dello scavo vi furono rinvenute molte lucerne probabilmente legate al culto in ore notturne, frequente nel caso di divinità ctonie. Il cortile dell’altare era fiancheggiato ad est da un’esedra con sedili, fronteggiata da una seconda più piccola sul lato opposto, destinate probabilmente alle cerimonie del culto. Vi si affaccia anche un piccolo sacello. A sud del santuario è presente un secondo recinto sacro (temenos) ancora a pianta trapezoidale. Sul lato opposto orientale della piazza inferiore, ai piedi della collina, imponenti contrafforti reggono i muri perimetrali di quello che fu il granaio principale della città, costituito da una serie continua di magazzini, dove si raccoglieva la produzione agricola e probabilmente le tasse dovute prima a Siracusa e poi a Roma. All’estremità settentrionale del granaio, è visibile una ben conservata fornace. Una seconda fornace più grande, a forma d’ampio cunicolo, spartito da arcate, è visibile all’angolo sud-est dell’agorà. Essa era destinata alla produzione di terrecotte per l’edilizia (mattoni e tubi per acquedotti). Sul pendici della collina orientale, s’incontra salendo un vasto edificio, dotato di più stanze ed ampio cortile pavimentato in cotto e affacciato sulla sottostante pubblica piazza. Secondo la ricostruzione fattane dagli archeologi si tratta di un prytaneion (pritaneo), luogo destinato al magistrato supremo della città e che ospitava il fuoco sacro. Sono visibili tre grossi conci incavati per alloggiarvi capaci anfore per la conservazione dell’acqua e del vino, e il basamento di un forno domestico, con i mattoni ancora anneriti. Ad est dell’agorà si trova un quartiere residenziale. Proseguendo oltre il pritaneo si trovano in cima alla collina i resti della Casa del Capitello dorico (o Casa del Saluto, per un’iscrizione di benvenuto realizzata sul pavimento), anch’essa affacciata dall’alto sull’agorà. Gli ambienti si articolano simmetricamente ai lati di un peristilio centrale che, oltre a dar luce agli ambienti interni, permetteva la raccolta dell’acqua piovana, convogliandola in due cisterne. Le colonne del peristilio sono realizzate con mattoni appositamente sagomati in forma anulare (tecnica utilizzata per contenere i costi e supplire alla mancanza di pietra adatta localmente). Per i pavimenti fu largamente utilizzato il cocciopesto, ottenuto mescolando cocci di terrecotte al cementizio, abbellito da disegni geometrici realizzati in tessere di pietra bianca. All’angolo sud della collina orientale affiorano i resti della Casa di Ganimede con grande peristilio rettangolare colonne scanalate e capitelli di stile dorico. Sono conservate due piccole stanze, ricostruite dagli archeologi con intonaco dipinto in rosso sulle pareti, tuttora ben conservate, e pavimenti a mosaico, tra i più antichi dell’arte ellenistica in Magna Grecia (III secolo a.C.). Il primo riproduce il ratto di Ganimede ed il secondo un meandro prospettico, preceduto da un riquadro con un nastro annodato e foglie d’edera, simboli della vittoria in una competizione sportiva o letteraria. La dimora, appartenente all’epoca geroniana, venne riutilizzata dopo la presa della città da parte dei Romani e divisa in due parti con un muro che attraversava il peristilio. Sulle pendici dell’opposta collina occidentale, raggiungibile costeggiando i resti delle fortificazioni a sud dell’abitato, si trova un secondo quartiere residenziale, non ancora interamente scavato, che mostra chiare evidenze dell’impianto urbanistico regolare ed ortogonale di Morgantina, articolato su una serie d’isolati d’uguali dimensioni (110 × 37,50 m). Lungo le strade che separano gli isolati correvano stretti canali di drenaggio, per lo smaltimento delle acque piovane. Procedendo da sud verso nord, s’incontra una grande dimora di ben ventiquattro stanze, molto verosimilmente appartenuta ad uno dei governanti della città (da qui il nome di Casa del Magistrato). Vi s’accede da un ampio ingresso sul lungo muro orientale ed è divisa nettamente in due settori: quello privato a nord e quello di rappresentanza a sud. Quest’ultimo si articola sui due lati di un cortile porticato, su cui si affacciano un atrio preceduto da due colonne, con pavimento riccamente decorato, ed una grande sala quadrata con lo spazio sufficiente per nove tricilini, destinata a ricevimenti e banchetti. Uno stretto corridoio a destra dell’atrio immette nella parte privata, ove un secondo peristilio disimpegna le numerose camere che lo circondano. In epoca romana, la casa fu frazionata ed occupata da un vasaio, le cui fornaci, ancora integre, sono visibili all’angolo nord-ovest. Oltre questa casa una grande arteria centrale in acciottolato, larga 6,40 m, con direzione ovest-est, divide il quartiere in due settori. Lungo il suo percorso si incontra per prima la ‘Casa dei Capitelli tuscanici, disposta su più livelli e rimaneggiata nel corso del I secolo a.C., con l’inserimento d’elementi architettonici di tradizione italica. Un cortile delimitato da quattro colonne ne costituiva ad est l’atrio monumentale, mentre un lungo e stretto peristilio la chiudeva ad ovest. Affiancata ad essa è la Casa sud-ovest, articolata attorno ad un peristilio a dodici colonne, sul quale si apre un soggiorno esposto a sud, costituito da un vano centrale di 35 m² e due vani simmetrici laterali, il tutto pavimentato con un raffinato cocciopesto, arricchito da meandri di tessere bianche e da stelle a più colori. L’isolato successivo comprende quattro case, la prima delle quali, detta Casa delle Botteghe, fu trasformata in epoca romana con l’inserimento di più tabernae (negozi), composti da un vano per la vendita ed un retrostante deposito. Segue la Casa del Palmento, che conserva i resti di un locale per la produzione di olio, e quindi la Casa Pappalardo, con peristilio a dodici colonne e splendidi pavimenti a mosaico. Risale alla metà del III secolo a.C. e misurava ben 500 m². Lungo il muro perimetrale est della casa, è visibile l’estremità del canale fognario che serviva tutto l’isolato. L’ultima delle abitazioni portate alla luce in questo settore è la Casa delle quarantaquattro monete d’oro, dove venne rinvenuto un ripostiglio monetale con monete dell’epoca di Filippo II di Macedonia (359-336 a.C., di Alessandro Magno (336-323 a.C.) di Agatocle (304-289 a.C.) di Icetas (287-280 a.C.) di Pirro 280-278 a.C.). Sulla parte più settentrionale della collina si trova un altro isolato, metà del quale è occupato dalla Casa della cisterna ad arco, con ingresso sul lato occidentale e con ambienti dai pavimenti a mosaico articolati attorno a due peristili. La grande sala di soggiorno (tablinium) affacciata sul peristilio meridionale è stata ricostruita per proteggerne l’intonaco dipinto delle pareti ed il mosaico pavimentale; sulla parete occidentale è conservata l’imboccatura di una cisterna, con volta in conci squadrati e vasca in terracotta. Dai resti di una scala si è desunta l’esistenza di un secondo piano, presente in più di una casa di Morgantina. Altre due abitazioni, molto meno lussuose (Casa delle antefisse e Casa sud-est), completano l’isolato, ma i resti allo stato attuale sono poco leggibili. All’ingresso del sito archeologico sono stati collocati alcuni mulini familiari, costituiti da due elementi ad incastro in pietra lavica, moltissimi esemplari dei quali sono stati rinvenuti fra gli arredi delle case d’abitazione. La collina, ad est del pianoro su cui sorge la città, a circa un chilometro, è il sito dell’antica città, distrutta da Ducezio, i cui edifici, non ancora del tutto identificati, occupano i terrazzamenti a nord e ad ovest. Sulla sommità sono i resti di un tempio dalla pianta assai allungata, databile alla seconda metà del VI secolo a.C.. La ripida pendice orientale è occupata da una serie di tombe a camera scavate nella roccia e, in più tratti, sono anche visibili tracce delle mura di fortificazione, costituite da due cortine in pietra, riempite all’interno di terriccio. La monetazione di Morgantina copre un arco di tempo, che s’estende dal V al II secolo a.C., ed è una delle più interessanti delle città del centro della Sicilia, sia per la varietà di tipologia dei coni, sia per l’alto livello artistico dell’incisione. Una piccola litra d’argento (ca. 0,70 g) con una spiga di grano e la scritta MORCAИTINA venne coniata negli anni 465-460 a.C. poco prima della conquista di Ducezio e pare secondo alcuni studiosi che l’effigie raffigurata sia quella del mitico re Morges, un segno indistinguibile per la popolazione in gran parte sicula egemonizzata dai coloni calcidesi. La moneta di bronzo coniata dalla zecca che divenne il simbolo della polis siculo-ellenizzata è quella con Athena elmata con la scritta greca MORGANTINON e il leone che sbrana il cervo, una simbologia che richiama non solo le divinità Demetra e Persefone (vds. Acroliti- Santuario centrale) ma anche il programma politico del condottiero Dione (l’allievo di Platone) che sbarcò in Sicilia con il suo esercito nel 357 a.C. e chiese l’aiuto dei morgantini per combattere il nipote Dionisio il giovane. Si possono identificare tre fasi, una di tipo greco, nel V e nel IV secolo a.C. (MOΡΓANTINΩN), una seconda fase durante la seconda guerra punica con monete siceliote-puniche (SIKELIOTAN) ed una dei mercenari Iberici (HISPANORVM). Le diverse emissioni contrassegnano le tappe fondamentali della storia politica ed economica della città: la città sicula di Ducezio, la rifondazione sotto Timoleonte di Corinto e Agatocle, lo sviluppo urbanistico e la ricchezza sotto Re Gerone II, la resistenza antiromana ai tempi della seconda guerra punica e la conquista romana. Al tempo dell’alleanza siculo-punica, vennero coniate monete con l’iscrizione “dei Sicelioti” (SIKELIOTAN). La metrologia adottata, sino al 213 a.C., è quella propria delle città greche in Sicilia, che utilizzarono come unità di misura la litra, frazionabile in dodici once e corrispondente ad un quarto di dracma. Morgantina è l’unica città interna dell’isola, che abbia emesso un tetradramma durante il periodo di Agatocle (317-289 a.C.), moneta che, per il suo alto valore, testimonia una notevole potenza economica. 
Da Wikipedia. 
Foto di Marina Berretti.

Sito Etnanatura: Morgantina.

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Grotta delle Femmine

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27052012 093Nel 2000 a.C. nella Sicilia orientale si insediò un popolo preistorico noto per fattura di alcune ceramiche dalle linee brune su uno sfondo rosso mattone. Paolo Orsi diede a questa cultura il nome di Castelluccio dalla località in cui furono rinvenuti i primi resti. Alla cultura del castelluccio si devono ascrivere anche asce di basalto e di pietra verde e poi di bronzo e l’usanza di seppellire i morti in piccole grotte. Trovare frammenti ceramici riconducibile a una fattura castellucciana nelle zone sommitali dell’Etna come nella grotta delle Femmine aggiunge fascino e leggenda. La grotta è una galleria di scorrimento generata da colate preistoriche e presenta diversi strati di lava incurvati. I raggi solari che penetrano dall’apertura esterna si insinuano nelle gallerie della grotta creando lamine di luce che esaltano i dettagli nel buio circostante.

Sito Etnanatura: Grotta delle Femmine.

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Grotta dei roditori

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27-01-2013 10-49-15Il sottosuolo di Catania, grazie al sovrapporsi nei millenni di diverse colate laviche, presenta un tesoro di grotte e anfratti che si segnalano per un fascino misterioso.  Queste grotte hanno costituito un sicuro rifugio, dalla preistoria alla seconda guerra mondiale, per gli abitanti del luogo e spesso conservano tesori archeologici non ancora del tutto svelati. Così la grotta dei roditori, nascosta fra le sterpaglie che circondano un moderno campo da tennis, è stata la “truvatura” di frammenti ceramici di età tardo-romana e bizantina  nonché di diversi scheletri di roditori di probabile grossa mole che hanno dato il battesimo all’anfratto. Si tratta di una tipica galleria di scorrimento lavico, dovuta ad un’eruzione preistorica, nella quale si accede attraverso un foro della volta. La cavità è costituita da un primo vasto ambiente di forma ellittica. Alla base delle pareti, sono presenti piccoli rotoli di lava sovrapposti l’uno sull’altro. In direzione Est, si diparte un tunnel in ottimo stato di conservazione, che presenta, oltre alle consuete stalattiti da rifusione, un canale con i due rispettivi argini che dopo alcuni metri di sviluppo diventa una vera e propria cascata di lava solidificata.

Sito Etnanatura: Grotta dei roditori.

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Mendolito

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11-06-2014 07-40-50Avete mai pensato a quante macchine del tempo abbiamo a disposizione? Basta guardare il cielo per ammirare la luce delle stelle che arriva a noi dopo aver percorso migliaia se non milioni di anni luce. Esse ci dicono come erano quando la terra non esisteva e mai potremo sapere come sono ora (assunto che esistano ancora). La stessa cosa avviene con i siti archeologici, soprattutto quando diverse stratificazioni temporali si sovrappongono e ci permettono una lettura “nel tempo”. Sotto questo aspetto il sito di Mendolito, poco o per nulla conosciuto, è uno dei più significativi. Nato nell’ XI secolo a.C. ad opera degli “indiani” siciliani che non avevano conosciuto ancora la colonizzazione di altri popoli, si è espanso nel tempo passando dalla cultura greca a quella normanna per conoscere (ahilui ed ahinoi) l’incuria e l’abbandono odierno: ma questa è una triste storia siciliana  condivisa con altri luoghi.

Foto di Salvo Nicotra.

Sito Etnanatura: Mendolito.

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Castello di Poira

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22-12-2012 09-08-50Sulla cima di una dolce collina che sovrasta la valle del Simeto si trova il castello della baronessa Poira. Antica possente masseria i cui resti, malgrado il triste degrado, testimoniano l’imponenza di un tempo. La facciata dirupata permette una lettura degli ambienti interni tutti funzionali alla vita contadina di una nobile famiglia. Intorno i resti di ceramica castellucciana testimoniano una frequentazione dei luoghi già dalla prima età del bronzo. Recenti scavi archeologici fanno pensare anche alla presenza di una civiltà in qualche modo “imparentata” con i greci. Poco distante la grotta degli schiavi, forse un antico  Ergastulum romano, cioè il luogo in cui gli schiavi trovavano rifugio nella notte dopo il lavoro.

Sito Etnanatura: Castello di Poira.

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Fontana Paradiso

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15-05-2014 17-39-31A est di Pedagaggi, a circa due chilometri dall’abitato, si trova contrada Fontana Paradiso, il cui toponimo rimanda all’esistenza di una ricca sorgente, la sorgente Paradiso appunto, che in passato favorì certamente lo stanziamento dell’uomo, attratto probabilmente, oltre che dall’acqua, anche dalla presenza di una fitta boscaglia e di un’abbondante selvaggina. La presenza dell’uomo in quell’area è testimoniata dalle numerose grotticelle artificiali preistoriche realizzate lungo i fianchi della profonda cava scavata nel corso dei secoli dal torrente Gelso, alimentato dalla sorgente Paradiso. Due le grotte archeologicamente più rilevanti visitate a metà degli anni ’60 dal prof. Luigi Bernabò Brea. Nella prima, un riparo sotto roccia, furono rinvenuti e raccolti diversi utensili di pietra riconducibili al Paleolitico superiore. Gli oggetti litici scoperti appartengono, nello specifico, alla fase iniziale del cosiddetto Epigravettiano finale, tra 14 e 12 milioni di anni fa. Nella seconda grotta, conosciuta come «Grotta del fico», l’indagine dell’illustre archeologo ligure consentì di accertare la presenza di ossa umane e di numerosi frammenti di ceramica appartenenti allo stile di Diana del Neolitico superiore, agli stili del Conzo e di Malpasso dell’Eneolitico, e allo stile di Castelluccio dell’Età del Bronzo antico.

Proloco Pedagaggi

Foto di Giuseppe Guercio

Sito Etnanatura: Fontana Paradiso.

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Torre Rossa

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06-05-2014 23-04-22Nel patrimonio assai esiguo vantato dall’architettura funeraria a carattere monumentale nella Sicilia antica, un posto di rilievo va dato all’edificio turriforme di età romana che si conserva, in cattivo stato, ma con caratteri formali e costruttivi di notevole interesse, a poca distanza dall’abitato di Fiumefreddo.
Negata in buona parte alla vista, la cosiddetta Torre Rossa si erge in un terreno in lieve declivio piantato ad agrumeto, a ovest dell’abitato, prossimo all’omonimo e periferico quartiere che si dispone a ridosso della Statale 120. La costruzione ha forma di un blocco parallelepipedo la cui regolarità è assai compromessa da una secolare opera demolitoria che ha soprattutto corroso la parte inferiore, e deriva il suo nome dall’interessante parametro murario in mattoni di terracotta, la cui patina è ancora evidente malgrado i diversi depositi terrosi, le diffuse incrostazioni, l’azione degli agenti meteorici.
Attualmente la torre affiora da un lato (quello che guarda a est verso la costa) per un’altezza di circa otto metri; trovandosi esattamente allineata con un basso muretto di terrazzamento, sul quale inoltre è ospitato un moderno canale per la distribuzione dell’acqua d’irrigazione, risulta ulteriormente interrata sugli altri tre fronti di circa un metro. Sul fronte a valle, il notevole asporto distruttivo di muratura risulta compensato dalla tarda costruzione (XVII-XVIII secolo) di un muro di grossa sezione che ha avuto come scopo la chiusura della camera interna per usi contadini e la necessaria opera di consolidamento. In questo si apre un varco, in passato provvisto d’infisso ligneo, da cui si può ben vedere in basso il vano semiipogeo. Il prospetto Nord risulta alquanto regolare, con la maggior parte del paramento ben conservata; in basso, una trincea di scavo rivela l’esistenza di due gradini che ne profilano la base e che valgono dunque a stabilire l’antico piano di posa. I prospetti affacciati a oriente e mezzogiorno sono quelli che hanno maggiormente sofferto danni. Nel primo un muretto contadino chiude in parte la vasta breccia aperta sul sacello funerario, mentre la zona di coronamento rivela un crollo o, forse, i segni del tentativo di abbattimento. L’angolo e il conseguente quarto lato si dimostrano ampiamente disfatti avendo perso buona parte della sezione più esterna che chiudeva parte della rampa di scale ottenuta nello spessore murario. La tessitura dei mattoni che riveste l’esterno presenta un preciso, elegante ricorso di elementi in cotto alternati per spessore; nello zoccolo di base, notevolmente guastato, si osservano alcuni tratti dell’accurata esecuzione di modanature attraverso l’impiego di blocchi smussati, la particolare disposizione dei lembi rialzati di embrici, la giacitura di sottili mattoni variamente sporgenti.

L’ambiente coperto che si trova interiormente è un vano pressoché quadrato (m. 2.65 x 2.70), con pavimento invaso da infiltrazioni e da crolli; su tre pareti si aprono coppie di nicchie rettangolari terminanti ad arco, in bella struttura a vista realizzata con precisi ricorsi di mattoni anche se notevolmente danneggiata e lacunosa. Tra le nicchie (columbaria), un tempo utilizzate per ospitare vasi o urne funerarie, si osservano piccoli incavi “a unghia” per l’alloggiamento di lucerne a olio. Poco più in alto si ha traccia di una cornice ottenuta col progressivo aggetto di laterizi sottili, e su di essa s’imposta la botta a volte, già anch’essa rivestita nell’intradosso con mattoni. La quarta parete non presenta incavi funerari, ma l’eloquente traccia di una scala di accesso; questa sale verso sinistra. Da qui una ripida rampa, dai gradini fortemente erosi o danneggiati, risale parallela al lato meridionale, coperta da una ragguardevole successione di voltine scalari; quindi dal pianerottolo terminale posto in corrispondenza dell’angolo, piega – risultando ormai a cielo aperto – fino a raggiungere il piano sommitale. In quest’ultimo segmento, meglio conservato, i gradini mostrano alzate formate da doppie file alternate di mattoni grossi e sottili, e pedate costituite da uno spessore di regolari blocchetti in arenaria. Dal “terrazzo”, coperto da uno spessore terroso che permette a piccoli cespugli di vegetare, e in cui sono scarsi avanzi di muri diroccati, si percepisce la considerevole altezza dell’edificio.

NOTIZIE STORICHE

Delle origini e delle vicende della Torre Rossa, già poco familiare agli stessi ambienti scientifici, non si hanno documenti significativi. Per alcuni studiosi sarebbe da ritenere quella menzionata nel documento di età normanna relativo alla concessione all’abate Ansgerio della “vicina” chiesa di S. Giovanni da parte del vescovo Giacomo Mannuges (20 maggio 1103), documento confermato dal vescovo Roberto di Messina nel 1106. Non è comunque certo che si tratti del nostro edificio (per quanto nei pressi è stato individuato l’impianto di un antico edificio sacro conosciuto come ‘a crisiazza), anche per la testimonianza di altri scrittori, i quali per l’antica chiesa del Santo Precursore indicano un diverso sito, più vicino alla foce del fiume, ipotesi che meglio giustifica così la successiva assunzione del titolo da parte della più tarda chiesetta esistente presso il noto “Castello degli Schiavi”.
In età feudale se ne riscontra soltanto il riferimento toponomastico; Torrerossa costituisce la denominazione di un feudo e di un piccolo nucleo abitato variamente concessi ai diversi casati nobiliari insieme ad altri possedimenti.
Solo nel XVIII secolo si ha espressa menzione dell’edificio; Anton Giulio Filoteo degli Omodei la ricorda riferendo del “Fiume di Catanzaro, ovvero di Torrerossa per un’antica torre di mattoni, che vi è, ma rovinata”. Jean Houel che trovandosi a Fiumefreddo nel suo secondo viaggio nell’Isola (1776-79) per misurare l’altezza dell’Etna, visitò il monumento, rilevandolo e restituendoci una notevole “veduta prospettiva”, accompagnata da una ricca descrizione e personali considerazioni che si offrono quale preziosa, insostituibile testimonianza. Certo di trovarsi “nel luogo che fu altrimenti occupato dall’antica Naxos” egli ebbe modo di vedere intorno resti di edifici, muri, acquedotti e tombe sparse nella campagna “simili a piccole case voltate”. Egli disegno tra queste unicamente la Torre Rossa “è perché la struttura singolare mi è parso meritare questa attenzione”.
Lo studioso francese scrive: ”La maggior parte degli abitanti di questo luogo, molto mal popolato, si sono insediati sulle rovine degli antichi edifici. La tomba… è un’opera romana di bella esecuzione. E’ rappresentata qui molto degradata; sono i locali che ne hanno tolto i mattoni per frantumarli e farne della malta. E’ così che hanno trattato la maggior parte dei monumenti antichi”. Descrivendola puntualmente, ancora annota: “ Questa tomba sembra essere stata situata nella corte o nei giardini di un antico palazzo, di cui i resti dei muri sussistono ancora nei dintorni”.
La testimonianza dello studioso settecentesco, suffragata da recenti scavi, che hanno portato alla luce ambienti mosaicati di una villa romana, mettono giustamente in relazione la tomba con la ricca residenza suburbana di un latifondista, forse un cittadino di Tauromenium. La successiva utilizzazione quale torre ben si giustifica per lo stato di insicurezza del periodo medievale e dei secoli in cui la Sicilia fu sottoposta alla scorreria dei barbareschi, facendo declinare nel tempo la comprensione dell’originaria funzione.
Il tipo e la struttura del mausoleo, configurano un modello in cui non si conoscono eguali nella regione, anche se documenta in tutto l’Impero, dall’Italia, alla penisola iberica, all’Africa settentrionale e al Medio Oriente. La tecnica di costruzione, che si trova ampiamente diffusa nella zona nord-orientale dell’Isola tra il II e il III secolo (vedi a Taormina il Teatro antico, l’Odeon e la cosiddetta Naumachia, a Centuripe il grande ninfeo di “moda anatolica”, a Catania il relativo impiego del laterizio in alcuni edifici pubblici) si propone quale elemento che permette di datare la torre funeraria alla fine del II secolo d.C., insieme al fatto che dopo tale periodo fu progressivamente abbandonata la pratica della cremazione. La perizia e l’impiego della tecnica della muratura a sacco (emplecton) con paramenti ad opus testaceum, che implica l’esistenza di grandi fornaci per la copiosa domanda e produzione, fa pensare che al tempo esistessero nella zona maestranze di provata esperienza e cantieri ben attrezzati, capaci di una specializzata organizzazione del lavoro per l’edificazione di notevoli strutture, e certamente ben eruditi sul patrimonio di conoscenza che era del mondo in età imperiale.

(Tratto dalla rivista “PALEOKASTRO” n. 14 anno 2004).
Foto di Angelo Tecchese La Spina.

Sito Etnanatura: Torre Rossa.

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Acquedotto Romano

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27-02-2014 20-47-29L’acquedotto romano di Catania fu la maggiore opera di convoglio idrico nella Sicilia romana. Attraversava il territorio compreso tra le fonti sorgive di Santa Maria di Licodia e l’area urbana catanese, percorrendo gli attuali territori comunali di Paternò, Belpasso e Misterbianco prima di giungere al capoluogo etneo. Nonostante la struttura fosse imponente e piuttosto articolata e sebbene fino al XIX secolo non manchino attestazioni del suo utilizzo in alcune sue parti, della presenza di tale sistema idrico non si ha menzione nelle fonti classiche. La prima citazione la compie il Fazello nella seconda metà del XVI secolo che lo definisce ricco di acque e monumentale come quelli di Roma, mentre è in Bolano la prima descrizione dell’acquedotto in rapporto alla città: esso si diramava in tre direzioni, corrispondenti ad altrettanti quartieri civici. Nel Seicento Pietro Carrera e nel secolo successivo Vito Maria Amico e Ignazio Paternò Castello descrivono ampiamente il monumentale sistema idrico, tuttavia le prime immagini che lo ritraggono si devono a Jean Houel che nel suo Voyage pittoresque des isles de Sicile, de Malta et de Lipari illustra alcuni tratti dell’acquedotto, nonché la così detta botte dell’acqua di Santa Maria di Licodia, una grande cisterna chiusa con volta a botte e separata in due ambienti da un alto divisorio, identificata quale la cisterna di raccolta delle sorgive destinate alla distribuzione idrica. Nel XIX secolo la struttura, caduta ormai nel disinteresse, subisce nuovi danneggiamenti ad opera umana (già lo storico Francesco Ferrara ricorda come per la realizzazione delle mura di Catania e per la passeggiata della Marina vennero demoliti gli archi della contrada Sardo e ancora Vincenzo Cordaro Clarenza nel 1833) nonostante nel contempo inizino ad esserci i primi interessi tecnico-scientifici sul monumento, tra cui il Duca di Carcaci ne ipotizza una portata di 46 zappe. L’ingegnere Luciano Nicolosi pubblica la prima monografia sul monumento in cui ne descrive l’aspetto tecnico analizzando tracciato, dimensioni del canale, materiale usato (per l’esterno, come per l’interno del canale) e ipotizza a circa 30.000 cubi di acqua al giorno la portata dell’acquedotto. Nel 1964 l’archeologa Sebastiana Lagona ha per la prima volta usato criteri scientifici moderni nell’analisi dell’edificio e nel 1997 viene pubblicato, a cura della dott.ssa Gioconda Lamagna uno studio accurato del tratto paternese del grande complesso. Infine il 10 maggio 2003, nell’auditorium “Don L. Milani” di Paternò, in occasione della V Settimana della Cultura si è tenuto un convegno con l’acquedotto catanese come tema principale, a cura dell’organizzazione SiciliAntica, con il patrocinio del Comune di Paternò e la collaborazione del Centro Universitario di Topografia antica (CE.U.T.A. dell’Università di Catania) e la Soprintendenza ai Beni Culturali e Ambientali di Catania. Per l’approvvigionamento idrico la città di Katane, nome di fondazione del capoluogo etneo, faceva largo uso delle emergenze che ne bagnavano il suolo. Essendo fondata su un terreno di natura argillosa non erano infrequenti le nascite di sorgive presso le colline che circondavano l’abitato (Monte Po, il Poggio Cibali, Monte San Paolillo, lo stesso Colle di Montevergine sono tuttora ricche alla base di sorgenti spontanee), spesso caratterizzate da sacche o polle d’acqua destinate a estinguersi con la stagione secca; non mancavano nemmeno risorse idriche costanti, come i fiumi – l’Amenano che bagnava la città, il Longane che la lambiva a nord, lo Judicello, ramo a sud dello stesso Amenano – o la Gurna di Aniceto, noto come lago di Nicito. Tuttavia, sin dal 693 a.C., il territorio catanese venne sconvolto dalle eruzioni dell’Etna che contribuirono a rendere instabile la presenza di risorse idriche: il fiume Amenano diventa debole e fiacco e lo stesso lago di Nicito si svuotava lasciando terreni (…) adatti alla coltura. Ovidio racconta che il fiume catanese scorre trascinando sicule sabbie, ora è secco come se le sue fonti si fossero inaridite. Le sorgenti prossime alla città dunque non bastarono più a soddisfare il fabbisogno di acqua e in età non ben identificata iniziò la costruzione del lungo acquedotto che avrebbe giunto le sorgenti di Santa Maria di Licodia con Catania. La presenza della grande struttura è certa solo dall’età augustea in poi, in quanto si rinvenne presso la sua parte iniziale una lapide incisa con i nomi dei curatores aquarum e databile al I secolo, oggi custodita al Museo civico catanese del Castello Ursino. Secondo le fonti in età augustea Catina (il nome latino dell’antica Katane) viene eletta al rango di colonia ed è probabile che questo cambio di status abbia anche permesso uno sviluppo della città etnea e relativa necessità di approvvigionamento idrico e da qui l’esigenza di un tale monumento. L’edificio subì diversi danneggiamenti, tra cui, secondo il Principe di Biscari anche l’eruzione del 253 e una lapide – rinvenuta dal medesimo nel 1771 presso il complesso monacale dei benedettini relativa ad un ninfeo che qui insisteva – ne ricorderebbe dunque un restauro eseguito. Mancando analisi congiunte su tutto il tracciato che possano gettare un po’ di luce sulla storia passata del monumento non siamo ad oggi in grado di delinearne l’uso nei secoli, si può solo ipotizzare che già in epoca islamica la struttura fosse dimenticata, se all’attento Idrisi ne sfugge la menzione. Bisogna attendere il XVI secolo per averne qualche notizia. Nel 1556 il viceré Juan de Vega ordinò lo smantellamento di un lungo tratto dell’ancora esistente ponte-acquedotto sito nei pressi della città, al fine di ricavarne materiale da costruzione da impiegare nella realizzazione delle mura di Catania, dimezzandone la quantità di archi (da 65 che se ne contavano ad appena 32), e nel 1621 dietro comando del Duca di Carpignano, soprintendente generale alle fortificazioni, nell’ambito di un generale restauro dell’assetto difensivo della città, fece spoliare il monumento insieme ad altri per la realizzazione di una strada pavimentata “con ordinate lastre”, cosa straordinaria per quei tempi, che un divenne luogo di passeggio e svago, dotato di panchine e alberi, in cui i catanesi amavano darsi convegno nel tardo pomeriggio. L’eruzione dell’Etna del 1669 contribuì infine a interrare le uniche arcate superstiti presso Catania, lasciandone appena qualche porzione svettante tra le lave, in quelle che agli inizi del Novecento erano le proprietà Borzì-Sulmona (oggi presso via Grassi). Ulteriori danni fecero il terremoto del Val di Noto del 1693 e l’incuria, nonché il cambio di destinazione d’uso e la cementificazione selvaggia. Durante la seconda guerra mondiale alcuni tratti sono sfruttati dalla popolazione locale per sfuggire ai bombardamenti alleati, mentre solo dal 1997 è in atto un continuo lavoro di comprensione e ricerca della struttura la cui finalità è la catalogazione, il restauro e la preservazione.Dell’edificio originario purtroppo non rimangono molte tracce, tuttavia sulla base di queste e sulle descrizioni passate possiamo avere un quadro generale del monumento.Il tracciato dell’acquedotto percorreva circa 24 km da Santa Maria di Licodia a 400 m.s.l.m. fino a Catania, presso il convento benedettino di San Nicola, coinvolgendo cinque territori comunali. A Licodia esistono quattro diverse sorgenti che venivano incanalate in un grande serbatoio (la Botte dell’acqua), di cui ci permane solo una documentazione da parte dell’Houel. Questa struttura, una grande camera a base quadrata divisa da una parete centrale e con copertura a botte, intercettava l’acqua mediante quattro bocche per poi direzionarla ad uno specus, un canale aperto a est, verso Catania. La conduttura misurava oltre mezzo metro in larghezza e un metro e mezzo in altezza ed era coperta con una volta semicircolare impermeabilizzata all’interno con un fine intonaco costituito da malta, pozzolana e frammenti di terracotta (Opus signinum o cocciopesto). Il materiale usato per il resto dell’acquedotto era quindi la pietra lavica principalmente – sia in roccia glabra per il riempimento che in cocci ben squadrati per la copertura – un composto di malta e pozzolana per fissare i blocchi e isolare il flusso idrico (chiamato in antico emplecton), mattoni in terracotta per gli archi. Il Principe di Biscari descrisse diverse lamine di piombo rinvenute all’interno delle condotte e conservate dall’Amico nel museo dei Benedettini con sede nel loro convento. Queste lamine per l’Amico dovevano ricoprire l’intera struttura, mentre il principe più argutamente ipotizza fossero dei restauri effettuati in antico per chiudere le fessure generate dall’usura; tale restauro potrebbe essere quello menzionato dalla lapide relativa al curatores Q. Maculnius. Dal serbatoio quindi si dipartiva il lungo tragitto del canale che prevedeva salti di quota, vallate, villaggi. Per mantenere costante la pendenza la struttura si presentava ora completamente interrata, ora su un semplice muro di sostegno, mentre dove la conduttura doveva affrontare dislivelli notevoli vennero realizzati ponti-acquedotto su arcate portanti, talora anche su due file sovrapposte. Le uniche analisi effettuate ad oggi sono relative al tratto che interessa quasi esclusivamente il territorio comunale di Paternò e risalgono al 1997. Tale tratto corrisponde a circa il 20% del tracciato originale estendendosi per quasi 5 km. Qui da una quota di terra 369,50 m.s.l.m. si giunge a circa 347,50 m.s.l.m., mentre il livello di scorrimento dell’acqua va da quota 368,00 m.s.l.m. a 349,75 m.s.l.m., determinando una pendenza dello 0,0043. Si è supposta quindi una portata di 0,325 m3/s, pari a 325 litri al secondo, non discordanti con le 46 zappe previste dal Duca di Carcaci o con i 30.000 m3 giornalieri supposti dal Nicolosi. Lungo il percorso non erano infrequenti i putei, pozzi di ispezione usati anche per la manutenzione e la pulizia, di cui ancora se notano numerosi, come pure persistevano diversi castella aquae (o castelli di distribuzione, ossia cisterne di filtraggio e diramazione dell’acqua) segnalati a Licodia, Valcorrente, Misterbianco, Catania. Il castello dell’acqua di Licodia è andato perduto a seguito di lavori di sbancamento, mentre nella località Sciarone Castello di Belpasso rimangono i resti più notevoli; a Misterbianco, contrada Erbe Bianche, doveva pure esservi un castello di distribuzione che invogliava l’acqua al complesso termale in via delle Terme e di cui non restano che esigue tracce; a Catania, a poca distanza dall’attuale Corso Indipendenza, il Biscari identifica una fabbrica quadrata coperta a volta, che mostra essere stata forse una conserva d’acqua e un’altra nella vigna dei Portuesi. Il sistema avrebbe dovuto quindi raggiungere un grande serbatoio non ancora identificato e sito probabilmente sul punto più alto dell’abitato, cioè in vetta al Colle Montevergine e da qui si diramavano i tratti di acquedotto civico destinato alle fontane e terme pubbliche, a residenze private etc. Secondo alcuni autori, tra cui il Ferrara e l’Holm, il grande serbatoio si dovrebbe riconoscere nel grande Ninfeo identificato dal Biscari presso il convento benedettino: non era infrequente infatti che una cisterna venisse monumentalizzata e configurata all’esterno come un grande ninfeo. Tale edificio venne riconosciuto grazie a una lapide incisa su cui era scritto <>. Leggende. Molte porzioni dell’acquedotto, soprattutto quelle a quota terra, si sono ben conservate prevalentemente per il riutilizzo come canale di irrigazione. L’uso di un canale di antica fattura ha fatto nascere diverse tradizioni popolari – non scritte, ma tramandate oralmente – come diverse storie legate alla figura di Sant’Agata. Una di queste racconta come un nobile romano si fosse invaghito della santuzza e per dimostrarle l’immensità del suo amore – non corrisposto, in quanto la fanciulla si era promessa a Dio – fece realizzare in una sola notte un acquedotto che da Licodia sarebbe giunto ai piedi della ragazza. Altre storie locali parlano di storie fantastiche e delicate leggende, fino all’identificazione del lungo canale romano con la saja dô Saracinu.

Da Wikipedia

Foto di Etnanatura, Salvo Nicotra e Francesco Marchese

Sito Etnanatura: Acquedotto Romano

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Ponte Saraceno

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23-03-2014 17-52-52«A mettere in comunicazione le varie masse della sponda sinistra del Simeto: Maniaci, Rotolo, Corvo, S. Venera, Bronte, e tre masse con gli abitanti della sponda destra: Bolo, Cesarò, Carbone, Placa Baiana, Troina, Messina, capitale allora del Valdemone e Palermo capitale dell’Isola, il Conte Ruggiero nel 1121 fece costruire il ponte, detto dagli Arabi Càntera, che diede poi il nome alla contrada e lo dedicò alla memoria della madre sua Adelasia, morta in Patti nel 1118. Vi si leggeva questa epigrafe greca, scolpita in pietra calcarea, posta sull’ala destra del ponte, a Nord: “Fu costruito questo ponte per la serenità del glorio­sissimo conte Ruggiero di Calabria e di Sicilia e dei Cristiani aiutatore per l’assoluzione della defunta madre di lui Adelasia regina. 6629, ind. 14 (1121)”. La stessa data un pò geroglifica si legge in un quadrello di pietra lavica nella centinatura del ponte, a mezzodì; e la stessa data leggevasi pure, mi dicevano gli anziani brontesi, nella parete della Chiesa di S. Giorgio, al camposanto, fabbricata da Ruggiero nel suo passaggio da Bronte, come affermano alcune scritture storico-legali, che si conservano nell’archivio comunale di Bronte. La Chiesa ora è stata distrutta a causa del nuovo cimitero e serve da ossario. Una leggenda narra che operai saraceni furono addetti alla fabbricazione del ponte; che un saraceno, piantatosi colle gambe sulle rive opposte del fiume, abbia indicato il sito, ove esso doveva sorgere. Nella fantasia popolare: saraceno era sinonimo di gigante. Il Dio Termine però dava spesso occasione a litigi; e odi feroci fervevano nei petti dei confinanti per l’eterna lotta del mio e del tuo. Di quest’odio un ricordo è rimasto nel detto tradizionale dei Brontesi: «Sono come Maniaci e Rapiti» per dire: sono due nemici acerrimi.»

Da B. Radice, Memorie storiche di Bronte

Foto di Concetto Mazzaglia e Salvo Nicotra

Pagine Etnanatura: Ponte Saraceno.

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