L’Etna e il vino

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Di Marinella Fiume.

Vestibolo di Polifemo - Villa del Casale. Piazza Armerina

Vestibolo di Polifemo – Villa del Casale. Piazza Armerina

Questi si affidano ai numi immortali:
non piantano alberi, non arano campi; ma tutto dal suolo
per loro vien su inseminato e inarato,
orzo e frumento e viti che portano vino
nei grappoli grossi, che a loro matura
la pioggia celeste di Zeus.

(Odissea, IX, 107-111)

Le origini del vino dell’Etna sono testimoniate solo nel V sec., ma il mito narra di tempi assai più antichi, di quando i coloni greci, i Calcidesi sbarcati a Naxos, non lontano da qui, si dedicarono professionalmente alla cultura della vite e chiamarono Enotria l’Italia, la terra della vite. Se il primato nella storia del vino in Sicilia spetta ai Fenici che lo introdussero in tutto il Mediterraneo, il ritrovamento di viti “ampelidi”, scoperte alle falde dell’Etna, dimostra la presenza della vite selvatica tra la flora mediterranea già nell’era terziaria. Con l’VIII sec., piuttosto, la cultura del vino in Sicilia si sviluppò, e in epoca romana accrebbe la sua importanza.

Con la caduta dell’Impero Romano, però, lo sfacelo politico e le scorribande barbariche determinarono il saccheggio, l’abbandono e l’esodo dalle campagne. I contadini cercavano rifugio nei monasteri ove si continuava a coltivare la vite anche per trarne l’elemento essenziale – con il pane – dell’ultima cena. Sicché fu proprio la religione cristiana a rappresentare l’argine per la conservazione del vino. I monaci insegnavano le tecniche di coltivazione e di vinificazione e, se l’Abate era il punto di riferimento per la vita agricola, il Vescovo lo era nella società cittadina al fine di potere continuare la ritualità della somministrazione del vino alla comunità dei fedeli. Il vino è insomma strettamente legato all’Etna. Un vulcano che non puoi raccontare se non lo vivi, di giorno, di notte, d’estate , d’inverno, con il sole e sotto la neve. Che ti dà e ti toglie, ti arricchisce e ti riduce in miseria. La lava è l’oro nero. La trovi nei marciapiedi delle strade, nelle panchine dei parchi, nelle cornici delle porte e delle finestre, nei gioielli, nella miriade di oggetti neri opera degli artigiani locali che i turisti si portano via come souvenir. La trovi in quei mascheroni mostruosi che tirano fuori la linguaccia e che costituiscono la chiave degli archi dei grandi porticati e i cagnoli dei balconi panciuti delle ville patrizie e dei palazzi barocchi. Mascheroni apotropaici che utilizzano il magma incandescente sberleffando il vulcano che lo ha sputato fuori. È difficile trovare un luogo dove lo sposalizio tra caratteri del terreno e condizioni ambientali sia più fortunato delle plaghe vulcaniche nei pressi di Piedimonte e Linguaglossa, patria del rinomato vino Doc Rosso dell’Etna, il cui paesaggio è caratterizzato dai tipici terrazzamenti e dalle colture viticole, dai muretti di pietra lavica, dalle torrette, dalle stesse caratteristiche dell’edilizia rurale con i suoi palmenti e le cantine. Anche la badessa Santa Ildegarda di Bingen , “l’erborista di Dio”, apprezzava particolarmente il potere terapeutico della vite e del vino e guariva le febbri alte, quartana e terzana, con del vino rosso nel quale era stato fatto bollire del basilico e l’insonnia e gli incubi notturni con il vino nel quale era stata messa della betonica e il tremore con il vino tiepido nel quale era stata messa la radice di curcuma e la malinconia e gli stati depressivi con il vino caldo nel quale era stata fatta bollire la radice del gigaro. La vite, insomma, è simbolo della natura umanizzata, e il vino, è rimedio principe per esorcizzare la paura della distruzione, della morte e della discesa agli Inferi.

Marinella Fiume

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