Il Fortino venne realizzato sulle lave del 1669 ancora calde a breve distanza dalle vecchie mura di città rovinate dall’eruzione. La struttura venne chiamato “Fortino” dalla popolazione per l’aspetto di un piccolo castello che aveva il complesso. Nel 1672 per la porta che controllava il passaggio da sud-ovest vi passò il viceré Claudio Lamoral Principe di Ligne e da allora si chiama Porta di Ligne. La struttura venne chiamata in seguito “Fortino Vecchio”, per distinguerlo dalla nuova fabbrica della Porta Ferdinandea (o porta Garibaldi), chiamata ancora oggi “Fortino”.
Sito Etnanatura: Fortino.
Torre Rossa
Nel patrimonio assai esiguo vantato dall’architettura funeraria a carattere monumentale nella Sicilia antica, un posto di rilievo va dato all’edificio turriforme di età romana che si conserva, in cattivo stato, ma con caratteri formali e costruttivi di notevole interesse, a poca distanza dall’abitato di Fiumefreddo.
Negata in buona parte alla vista, la cosiddetta Torre Rossa si erge in un terreno in lieve declivio piantato ad agrumeto, a ovest dell’abitato, prossimo all’omonimo e periferico quartiere che si dispone a ridosso della Statale 120. La costruzione ha forma di un blocco parallelepipedo la cui regolarità è assai compromessa da una secolare opera demolitoria che ha soprattutto corroso la parte inferiore, e deriva il suo nome dall’interessante parametro murario in mattoni di terracotta, la cui patina è ancora evidente malgrado i diversi depositi terrosi, le diffuse incrostazioni, l’azione degli agenti meteorici.
Attualmente la torre affiora da un lato (quello che guarda a est verso la costa) per un’altezza di circa otto metri; trovandosi esattamente allineata con un basso muretto di terrazzamento, sul quale inoltre è ospitato un moderno canale per la distribuzione dell’acqua d’irrigazione, risulta ulteriormente interrata sugli altri tre fronti di circa un metro. Sul fronte a valle, il notevole asporto distruttivo di muratura risulta compensato dalla tarda costruzione (XVII-XVIII secolo) di un muro di grossa sezione che ha avuto come scopo la chiusura della camera interna per usi contadini e la necessaria opera di consolidamento. In questo si apre un varco, in passato provvisto d’infisso ligneo, da cui si può ben vedere in basso il vano semiipogeo. Il prospetto Nord risulta alquanto regolare, con la maggior parte del paramento ben conservata; in basso, una trincea di scavo rivela l’esistenza di due gradini che ne profilano la base e che valgono dunque a stabilire l’antico piano di posa. I prospetti affacciati a oriente e mezzogiorno sono quelli che hanno maggiormente sofferto danni. Nel primo un muretto contadino chiude in parte la vasta breccia aperta sul sacello funerario, mentre la zona di coronamento rivela un crollo o, forse, i segni del tentativo di abbattimento. L’angolo e il conseguente quarto lato si dimostrano ampiamente disfatti avendo perso buona parte della sezione più esterna che chiudeva parte della rampa di scale ottenuta nello spessore murario. La tessitura dei mattoni che riveste l’esterno presenta un preciso, elegante ricorso di elementi in cotto alternati per spessore; nello zoccolo di base, notevolmente guastato, si osservano alcuni tratti dell’accurata esecuzione di modanature attraverso l’impiego di blocchi smussati, la particolare disposizione dei lembi rialzati di embrici, la giacitura di sottili mattoni variamente sporgenti.
L’ambiente coperto che si trova interiormente è un vano pressoché quadrato (m. 2.65 x 2.70), con pavimento invaso da infiltrazioni e da crolli; su tre pareti si aprono coppie di nicchie rettangolari terminanti ad arco, in bella struttura a vista realizzata con precisi ricorsi di mattoni anche se notevolmente danneggiata e lacunosa. Tra le nicchie (columbaria), un tempo utilizzate per ospitare vasi o urne funerarie, si osservano piccoli incavi “a unghia” per l’alloggiamento di lucerne a olio. Poco più in alto si ha traccia di una cornice ottenuta col progressivo aggetto di laterizi sottili, e su di essa s’imposta la botta a volte, già anch’essa rivestita nell’intradosso con mattoni. La quarta parete non presenta incavi funerari, ma l’eloquente traccia di una scala di accesso; questa sale verso sinistra. Da qui una ripida rampa, dai gradini fortemente erosi o danneggiati, risale parallela al lato meridionale, coperta da una ragguardevole successione di voltine scalari; quindi dal pianerottolo terminale posto in corrispondenza dell’angolo, piega – risultando ormai a cielo aperto – fino a raggiungere il piano sommitale. In quest’ultimo segmento, meglio conservato, i gradini mostrano alzate formate da doppie file alternate di mattoni grossi e sottili, e pedate costituite da uno spessore di regolari blocchetti in arenaria. Dal “terrazzo”, coperto da uno spessore terroso che permette a piccoli cespugli di vegetare, e in cui sono scarsi avanzi di muri diroccati, si percepisce la considerevole altezza dell’edificio.
NOTIZIE STORICHE
Delle origini e delle vicende della Torre Rossa, già poco familiare agli stessi ambienti scientifici, non si hanno documenti significativi. Per alcuni studiosi sarebbe da ritenere quella menzionata nel documento di età normanna relativo alla concessione all’abate Ansgerio della “vicina” chiesa di S. Giovanni da parte del vescovo Giacomo Mannuges (20 maggio 1103), documento confermato dal vescovo Roberto di Messina nel 1106. Non è comunque certo che si tratti del nostro edificio (per quanto nei pressi è stato individuato l’impianto di un antico edificio sacro conosciuto come ‘a crisiazza), anche per la testimonianza di altri scrittori, i quali per l’antica chiesa del Santo Precursore indicano un diverso sito, più vicino alla foce del fiume, ipotesi che meglio giustifica così la successiva assunzione del titolo da parte della più tarda chiesetta esistente presso il noto “Castello degli Schiavi”.
In età feudale se ne riscontra soltanto il riferimento toponomastico; Torrerossa costituisce la denominazione di un feudo e di un piccolo nucleo abitato variamente concessi ai diversi casati nobiliari insieme ad altri possedimenti.
Solo nel XVIII secolo si ha espressa menzione dell’edificio; Anton Giulio Filoteo degli Omodei la ricorda riferendo del “Fiume di Catanzaro, ovvero di Torrerossa per un’antica torre di mattoni, che vi è, ma rovinata”. Jean Houel che trovandosi a Fiumefreddo nel suo secondo viaggio nell’Isola (1776-79) per misurare l’altezza dell’Etna, visitò il monumento, rilevandolo e restituendoci una notevole “veduta prospettiva”, accompagnata da una ricca descrizione e personali considerazioni che si offrono quale preziosa, insostituibile testimonianza. Certo di trovarsi “nel luogo che fu altrimenti occupato dall’antica Naxos” egli ebbe modo di vedere intorno resti di edifici, muri, acquedotti e tombe sparse nella campagna “simili a piccole case voltate”. Egli disegno tra queste unicamente la Torre Rossa “è perché la struttura singolare mi è parso meritare questa attenzione”.
Lo studioso francese scrive: ”La maggior parte degli abitanti di questo luogo, molto mal popolato, si sono insediati sulle rovine degli antichi edifici. La tomba… è un’opera romana di bella esecuzione. E’ rappresentata qui molto degradata; sono i locali che ne hanno tolto i mattoni per frantumarli e farne della malta. E’ così che hanno trattato la maggior parte dei monumenti antichi”. Descrivendola puntualmente, ancora annota: “ Questa tomba sembra essere stata situata nella corte o nei giardini di un antico palazzo, di cui i resti dei muri sussistono ancora nei dintorni”.
La testimonianza dello studioso settecentesco, suffragata da recenti scavi, che hanno portato alla luce ambienti mosaicati di una villa romana, mettono giustamente in relazione la tomba con la ricca residenza suburbana di un latifondista, forse un cittadino di Tauromenium. La successiva utilizzazione quale torre ben si giustifica per lo stato di insicurezza del periodo medievale e dei secoli in cui la Sicilia fu sottoposta alla scorreria dei barbareschi, facendo declinare nel tempo la comprensione dell’originaria funzione.
Il tipo e la struttura del mausoleo, configurano un modello in cui non si conoscono eguali nella regione, anche se documenta in tutto l’Impero, dall’Italia, alla penisola iberica, all’Africa settentrionale e al Medio Oriente. La tecnica di costruzione, che si trova ampiamente diffusa nella zona nord-orientale dell’Isola tra il II e il III secolo (vedi a Taormina il Teatro antico, l’Odeon e la cosiddetta Naumachia, a Centuripe il grande ninfeo di “moda anatolica”, a Catania il relativo impiego del laterizio in alcuni edifici pubblici) si propone quale elemento che permette di datare la torre funeraria alla fine del II secolo d.C., insieme al fatto che dopo tale periodo fu progressivamente abbandonata la pratica della cremazione. La perizia e l’impiego della tecnica della muratura a sacco (emplecton) con paramenti ad opus testaceum, che implica l’esistenza di grandi fornaci per la copiosa domanda e produzione, fa pensare che al tempo esistessero nella zona maestranze di provata esperienza e cantieri ben attrezzati, capaci di una specializzata organizzazione del lavoro per l’edificazione di notevoli strutture, e certamente ben eruditi sul patrimonio di conoscenza che era del mondo in età imperiale.
(Tratto dalla rivista “PALEOKASTRO” n. 14 anno 2004).
Foto di Angelo Tecchese La Spina.
Sito Etnanatura: Torre Rossa.
Grotta di Acqua Vitale
Giuseppe Recupero nella sua “Storia naturale e generale dell’Etna” (Catania 1815), così ricorda la terribile colata del 1792: « La montagna conica dell’Arcimisa restò in gran parte seppellita da questa copiosa ed alta corrente di lava, la quale empì la profondissima valle del signor Gioacchino a segno di non lasciarne il menomo vestigio. Da qui il torrente focoso diviso in cinque braccia proseguì il suo corso nelle contrade di Cassone, distruggendo e snaturando tutte quelle fertili campagne, che incontrò nel suo passaggio ed andò finalmente a devastare le vigne in faccia della Zafarana. Gli abitanti del paese colti dallo spavento erano già in istato di abbandonare le loro case in preda del torrente infocato; ma la lava divisa in tante ramificazioni, si arrestò in quella scoscesa collina tutta vestita di vigneti, che è a poca distanza dalla Zafarana » Di quella colata restano, ad ovest di Zafferana, distese di lava che formano ghirigori fantastici come fossero nubi e sogni solidificati nella pietra. La grotta di Acqua Vitale si formò proprio da questa colata. Si tratta di una grotta di scorrimento lavico palesatasi da un crollo della volta che ne garantisce l’accesso. La presenza di numerose fratture nella volta permettono alla luce di filtrare illuminando dei tratti che emergono dal buio.
Sito Etnanatura: Grotta di Acquavitale.
Palazzo Università Catania
Il palazzo, come tutti i palazzi di Catania, fu ricostruito dopo il disastroso terremoto del 1693. Alla sua costruzione concorsero diversi architetti fra i quali Francesco e Antonino Battaglia e Giovan Battista Vaccarini. Successivamente, a seguito del terremoto del 1818 si rese necessario un ulteriore restauro che fu affidato all’architetto Mario Di Stefano. L’edificio è costituito da un intero isolato, come il vicino Palazzo degli Elefanti, con un cortile interno a forma di chiostro con porte originariamente aperte su tutti i quattro lati del palazzo. Il palazzo possiede una splendida Aula magna affrescata da Giovan Battista Piparo. Sulla parete che fa da sfondo al podio accademico, è appeso un arazzo con lo stemma della dinastia di Aragona. La Biblioteca dell’Università conserva dei preziosi codici, incunaboli, manoscritti e lettere autografe oltre a 200.000 volumi. L’Università di Catania, fu fondata il 19 ottobre del 1434 da Alfonso il Magnanimo. La bolla pontificia di Eugenio IV che autorizzò la costituzione fu emanata il 18 aprile 1444. I corsi iniziarono il 19 ottobre 1445, con sei docenti e vennero inizialmente tenuti in una costruzione che sorgeva in piazza Duomo a fianco della Cattedrale di Sant’Agata, nei pressi dell’attuale Palazzo del Seminario dei Chierici. Nel 1684 l’Università fu trasferita negli allora locali dell’ospedale San Marco, fino al 1693 quando il terremoto distrusse la fabbrica. Nel 1696 iniziarono i lavori per la costruzione del nuovo palazzo dell’Università, che diverra sede definitiva sino ad oggi.
Da wikipedia
Sito Etnanatura: Palazzo Università di Catania.
I laghetti di Cesarò
I laghi di Maluazzo e di Biviere si trovano sul versante meridionale dei Nebrodi, nei pressi di monte Soro, e ricadono entrambi all’interno del parco dei Nebrodi. Entrambi sono circondanti da una lussureggiante vegetazione costituita per gran parte da una folta faggeta. Ricchi di piante endemiche quali la bellissima Glyceria fluitans, la Typha latifolia, il Trifolium repens, la Mentha pulegium ed altre piante acquatiche. E’ facile notare delle particolari ondulazioni delle acque formate dal nuoto flessuoso delle bisce d’acqua (Natrix natrix) mentre, nelle giornate di sole, la testuggine palustre siciliana (l’Emys Trinacris) si riscalda sulle rive generose di cibo. La popolazione avicola è ricca di Poiane (Buteo buteo), Gheppi (Falco tinnunculus), Falchi Pellegrini (Falco peregrinus), lo Sparviero (Accipiter nisuss) e la rarissima Cincia bigia di Sicilia (Parus palustris siculus), che costituiscono avifauna stanziale.
Foto di Santo Bella
Sito Etnanatura: I laghetti di Cesarò
San Giovanni de Freri
L’arco di San Giovanni, risalente al XV sec. d.C., rimane una testimonianza del portale della chiesa di San Giovanni de’ Freri, si trova ad angolo tra la via Mancini e la via Cestai. Si presenta con dei chiari motivi floreali inseriti lungo tutto il perimetro di pietra lavica dell’arco a sesto acuto. I tratti sembrano richiamare il classico stile dell’architettura privata siciliana trecentesca del “chiaramontano” nome proveniente appunto da una potente famiglia siciliana del 300. Venne inglobato nel muro del palazzo intorno al 1890.
Sito Etnanatura: San Giovanni de’ Freri.
Cascate del Catafurco
Il percorso verso le cascate del Catafurco attraversa campagne coltivate e zone aperte destinate al pascolo, Villaggio Molise, tipico esempio di aggregazione rurale, di grande valore etno-antropologico, di cui oggi possiamo ammirare solo dei ruderi e delle casupole realizzate in pietra senza l’uso di malta. La cascata del Catafurco è una cascata naturale che si forma in corrispondenza di un dislivello di circa 30 m lungo il corso del torrente San Basilio. Alla base della cascata le acque si raccolgono in una cavità naturale, scavata nella roccia, chiamata Marmitta dei Giganti, dove, nella bella stagione, è possibile bagnarsi.
Foto di Michele Torrisi e Concetto Mazzaglia
Sito Etnanatura: Cascate del Catafurco.
Giornata della Terra
Etnanatura partecipa alla Giornata della Terra indetta dalle Nazioni Unite per affermare la necessità della salvaguardia dell’ambiente. Nata il 22 aprile del 1970 come movimento universitario, la Giornata della Terra vuole ricordarci l’importanza di promuovere uno sviluppo eco sostenibile salvaguardando la biodiversità e il territorio.
Torre del Grifo
L’undici di Maggio 1537 giorno di Venerdì fu fatta in Mongibello un’altra cruenta nel luogo dimandato le Fontanelle sotto il Monte, che dicono la schiena dell’Asino presso il Zaccano del Rizzo; vicino a quella si apersero più buchi; i quali tutti somministravan fuoco. Dall’una parte l’incendio trascorse infino a Santo Antonio, dall’altra infino alla torre di grifo.
Il Mongibello (1636 pag. 123) descritto da Don Pietro Carrera.
Palazzo Platamone
Il palazzo Platamone alla marina era ubicato tra il porto Saraceno ed il porto Pontone che rappresentavano i due più importanti approdi della Catania medievale. Apparteneva alla illustre e ricca famiglia dei Platamuni che si distinse nel campo commerciale ma che ebbe anche importanti esponenti che primeggiarono nell’ambiente politico ed ecclesiastico. Tra essi Battista Platamuni Viceré di Sicilia nel 1436 e segretario del re Alfonso il Magnanimo dal quale ricevette l’investitura del fondo di Aci; Giuseppe, dell’ordine dei domenicani, che nel 1530 tenne il discorso ufficiale nella cattedrale di Bologna per l’incoronazione dell’Imperatore Carlo V alla presenza del Pontefice Clemente VII; Antonio Vescovo di Malta; la venerabile suor Agata alla cui preghiera si raccomandava da Madrid il medesimo re Filippo II. A questo casato la ricchezza proveniva comunque dal commercio dei prodotti agricoli, del bestiame e dei tessuti esportati da Catania via mare nonché dall’attività svolta da alcuni esponenti della famiglia che esercitavano la professione di affermati banchieri. Il loro palazzo sorgeva nell’area sulla quale successivamente fu eretto il monastero di San Placido, che spesso ospitò la Regina Bianca, moglie di re Martino il Giovane. La medesima regina di Navarra per agevolare i traffici commerciali dei Platamuni aveva concesso l’apertura di una posterna nelle mura di cinta del baluardo adiacente alla casa di Don Antonio Platamuni. Questo privilegio fu goduto successivamente dai principi di Biscari. Le case dei Platamone si trovano inserite nel monastero perché già nel XV secolo la famiglia le aveva donate ai religiosi. Secondo la tradizione la dimora era stata edificata sui ruderi del tempio dedicato a Bacco. Le scosse sismiche del 9 e dell’11 gennaio del 1693 distrussero le fabbriche del monastero ed al sisma sopravvissero solo due monache; quanto rimasto in piedi venne, poi, abbattuto durante la ricostruzione della città. Nel periodo post-terremoto, così come era accaduto per altri monasteri femminili di Catania, al monastero di San Placido venne assegnato un intero isolato della nuova città, il sito era più ampio di quello prima del terremoto e solo in parte si sovrapponeva all’area preesistente. Oltre 100 anni durarono i lavori di ricostruzione del monastero e furono spese migliaia di onze. A questa ricostruzione parteciparono alcuni fra i protagonisti della rinascita della città: Alonzo Di Benedetto, l’architetto Giuseppe Palazzotto, Francesco Battaglia e Giovan Battista Vaccarini, mentre per il nuovo prospetto della Chiesa, iniziato nel 1768, le monache si affidarono all’architetto Stefano Ittar. Il convento è costituito da tre elevazioni, due delle quali risultano realizzate in maniera esaustiva, mentre l’ultima è quasi completamente scoperta, costituita dalla semplice parete di prospetto sia per rapportare l’altezza dell’edificio monastico a quello della chiesa sia per “difendere” la clausura delle monache. All’interno del cortile, sul fondo, si possono notare i resti di Palazzo Platamone risalente al XV secolo. Si può ammirare un profondo archivolto, sormontato da un balcone con parapetto decorato con un motivo a chevron, cioè con fasce bicolori – pietra calcarea e schiuma lavica. L’archivolto è formato da numerose mensole sempre in pietra calcarea legate fra di loro con una serie di piccoli archi ogivali decorati con motivi vari. Al centro lo stemma della famiglia, dove vi è raffigurato un monte sovrastato da tre conchiglie e a loro volta sormontate da un giglio. Questa loggia costituisce la sola testimonianza che ci resta della città tardo-medievale.
Da http://www.comune.catania.it/la_citt%C3%A0/culture/monumenti-e-siti-archeologici/palazzo-platamone-convento-san-placido/storia/
Foto di Salvo Nicotra
Sito Etnanatura: Palazzo Platamone.