Il castello della Solicchiata

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30-03-2014 10-13-14Il castello della Solicchiata, di proprietà del barone Antonino Spitaleri, sorge appena pochi chilometri fuori dall’abitato della città di Adrano. Fu eretto intorno al 1875 per volere del barone Spitaleri che intendeva costruire nella contrada Solicchiata un edificio adibito ad uso rurale. Divenne un’importante industria per la produzione del vino, il così detto “Vino della Solicchiata”. L’architettura si rifà allo stile medioevale, il castello è costruito in pietra lavica, circondato da un fossato ed accessibile quindi tramite un ponte levatoio.
Il vino “Castello Solicchiata” è da ricordare come il primo taglio bordolese d’Italia vinificato col metodo francese. Nel 1855 il Barone Felice Spitaleri di Muglia mise a dimora sull’Etna tra gli 800 e i 1.000 metri d’altezza, nel feudo Solicchiata, in ampie terrazze vulcaniche, i vitigni bordolesi Cabernet franc Merlot e Cabernet sauvignon gli stessi che ancora oggi producono questo importante vino. Il Castello Solicchiata ricevette il primo premio all’Esposizione di Londra nel 1888, il Grande Diploma d’Onore e Medaglia d’Oro a Palermo nel 1889, Vienna 1890, Berlino 1892, Bruxelles 1893, Milano 1894 e fu la prima fornitura ufficiale della Real Casa d’Italia. Il Barone Spitaleri ebbe il privilegio di potere innalzare lo stemma reale sul detto castello per il progresso enologico del Regno d’Italia. Il Barone Spitaleri produsse pure i primi Pinot nero d’Italia, la cui base fornì la formula del primo Etna rosso da lui stesso inventato e la produzione nei migliori terroirs dell’Etna del Boschetto Rosso (Pinot nero) e del Sant’Elia (Pinot nero) premiati a Londra nel 1888, Bruxelles 1893, Zurigo 1894. Fu tra i primi produttori di champagne d’Italia, con lo Champagne Etna, ed in assoluto il primo produttore di cognac italiano, con il Cognac Etna.

Info tratte da Wikipedia e dal sito web http://www.castellosolicchiata.it/
Foto di Salvo Nicotra

Sito Etnanatura: Castello della Solicchiata.

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Una notte di stelle cadenti

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liraLe Liridi sono uno sciame meteorico attivo dal 15 aprile al 28 aprile di ogni anno. È il primo sciame di cui si hanno osservazioni storiche, fu osservato per la prima volta dai Cinesi alcuni secoli A.C. Lo sciame è stato originato dalla cometa C/1861 G1 (cometa Thatcher), che ha un periodo di oltre 400 anni. Tempo permettendo si può tentare un’osservazione delle stelle cadenti nella notte fra il 22 e il 23 aprile puntando il cielo a mezzanotte verso est vicino la costellazione della Lira facilmente individuabile per la presenza di Vega, una fra le stelle più luminose del nostro cielo. Ovviamente allontanatevi dalle luci della città (potrebbe essere l’occasione per una romantica passeggiata notturna fra i boschi dell’Etna).

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Pubblicato in News

Acquedotto Romano

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27-02-2014 20-47-29L’acquedotto romano di Catania fu la maggiore opera di convoglio idrico nella Sicilia romana. Attraversava il territorio compreso tra le fonti sorgive di Santa Maria di Licodia e l’area urbana catanese, percorrendo gli attuali territori comunali di Paternò, Belpasso e Misterbianco prima di giungere al capoluogo etneo. Nonostante la struttura fosse imponente e piuttosto articolata e sebbene fino al XIX secolo non manchino attestazioni del suo utilizzo in alcune sue parti, della presenza di tale sistema idrico non si ha menzione nelle fonti classiche. La prima citazione la compie il Fazello nella seconda metà del XVI secolo che lo definisce ricco di acque e monumentale come quelli di Roma, mentre è in Bolano la prima descrizione dell’acquedotto in rapporto alla città: esso si diramava in tre direzioni, corrispondenti ad altrettanti quartieri civici. Nel Seicento Pietro Carrera e nel secolo successivo Vito Maria Amico e Ignazio Paternò Castello descrivono ampiamente il monumentale sistema idrico, tuttavia le prime immagini che lo ritraggono si devono a Jean Houel che nel suo Voyage pittoresque des isles de Sicile, de Malta et de Lipari illustra alcuni tratti dell’acquedotto, nonché la così detta botte dell’acqua di Santa Maria di Licodia, una grande cisterna chiusa con volta a botte e separata in due ambienti da un alto divisorio, identificata quale la cisterna di raccolta delle sorgive destinate alla distribuzione idrica. Nel XIX secolo la struttura, caduta ormai nel disinteresse, subisce nuovi danneggiamenti ad opera umana (già lo storico Francesco Ferrara ricorda come per la realizzazione delle mura di Catania e per la passeggiata della Marina vennero demoliti gli archi della contrada Sardo e ancora Vincenzo Cordaro Clarenza nel 1833) nonostante nel contempo inizino ad esserci i primi interessi tecnico-scientifici sul monumento, tra cui il Duca di Carcaci ne ipotizza una portata di 46 zappe. L’ingegnere Luciano Nicolosi pubblica la prima monografia sul monumento in cui ne descrive l’aspetto tecnico analizzando tracciato, dimensioni del canale, materiale usato (per l’esterno, come per l’interno del canale) e ipotizza a circa 30.000 cubi di acqua al giorno la portata dell’acquedotto. Nel 1964 l’archeologa Sebastiana Lagona ha per la prima volta usato criteri scientifici moderni nell’analisi dell’edificio e nel 1997 viene pubblicato, a cura della dott.ssa Gioconda Lamagna uno studio accurato del tratto paternese del grande complesso. Infine il 10 maggio 2003, nell’auditorium “Don L. Milani” di Paternò, in occasione della V Settimana della Cultura si è tenuto un convegno con l’acquedotto catanese come tema principale, a cura dell’organizzazione SiciliAntica, con il patrocinio del Comune di Paternò e la collaborazione del Centro Universitario di Topografia antica (CE.U.T.A. dell’Università di Catania) e la Soprintendenza ai Beni Culturali e Ambientali di Catania. Per l’approvvigionamento idrico la città di Katane, nome di fondazione del capoluogo etneo, faceva largo uso delle emergenze che ne bagnavano il suolo. Essendo fondata su un terreno di natura argillosa non erano infrequenti le nascite di sorgive presso le colline che circondavano l’abitato (Monte Po, il Poggio Cibali, Monte San Paolillo, lo stesso Colle di Montevergine sono tuttora ricche alla base di sorgenti spontanee), spesso caratterizzate da sacche o polle d’acqua destinate a estinguersi con la stagione secca; non mancavano nemmeno risorse idriche costanti, come i fiumi – l’Amenano che bagnava la città, il Longane che la lambiva a nord, lo Judicello, ramo a sud dello stesso Amenano – o la Gurna di Aniceto, noto come lago di Nicito. Tuttavia, sin dal 693 a.C., il territorio catanese venne sconvolto dalle eruzioni dell’Etna che contribuirono a rendere instabile la presenza di risorse idriche: il fiume Amenano diventa debole e fiacco e lo stesso lago di Nicito si svuotava lasciando terreni (…) adatti alla coltura. Ovidio racconta che il fiume catanese scorre trascinando sicule sabbie, ora è secco come se le sue fonti si fossero inaridite. Le sorgenti prossime alla città dunque non bastarono più a soddisfare il fabbisogno di acqua e in età non ben identificata iniziò la costruzione del lungo acquedotto che avrebbe giunto le sorgenti di Santa Maria di Licodia con Catania. La presenza della grande struttura è certa solo dall’età augustea in poi, in quanto si rinvenne presso la sua parte iniziale una lapide incisa con i nomi dei curatores aquarum e databile al I secolo, oggi custodita al Museo civico catanese del Castello Ursino. Secondo le fonti in età augustea Catina (il nome latino dell’antica Katane) viene eletta al rango di colonia ed è probabile che questo cambio di status abbia anche permesso uno sviluppo della città etnea e relativa necessità di approvvigionamento idrico e da qui l’esigenza di un tale monumento. L’edificio subì diversi danneggiamenti, tra cui, secondo il Principe di Biscari anche l’eruzione del 253 e una lapide – rinvenuta dal medesimo nel 1771 presso il complesso monacale dei benedettini relativa ad un ninfeo che qui insisteva – ne ricorderebbe dunque un restauro eseguito. Mancando analisi congiunte su tutto il tracciato che possano gettare un po’ di luce sulla storia passata del monumento non siamo ad oggi in grado di delinearne l’uso nei secoli, si può solo ipotizzare che già in epoca islamica la struttura fosse dimenticata, se all’attento Idrisi ne sfugge la menzione. Bisogna attendere il XVI secolo per averne qualche notizia. Nel 1556 il viceré Juan de Vega ordinò lo smantellamento di un lungo tratto dell’ancora esistente ponte-acquedotto sito nei pressi della città, al fine di ricavarne materiale da costruzione da impiegare nella realizzazione delle mura di Catania, dimezzandone la quantità di archi (da 65 che se ne contavano ad appena 32), e nel 1621 dietro comando del Duca di Carpignano, soprintendente generale alle fortificazioni, nell’ambito di un generale restauro dell’assetto difensivo della città, fece spoliare il monumento insieme ad altri per la realizzazione di una strada pavimentata “con ordinate lastre”, cosa straordinaria per quei tempi, che un divenne luogo di passeggio e svago, dotato di panchine e alberi, in cui i catanesi amavano darsi convegno nel tardo pomeriggio. L’eruzione dell’Etna del 1669 contribuì infine a interrare le uniche arcate superstiti presso Catania, lasciandone appena qualche porzione svettante tra le lave, in quelle che agli inizi del Novecento erano le proprietà Borzì-Sulmona (oggi presso via Grassi). Ulteriori danni fecero il terremoto del Val di Noto del 1693 e l’incuria, nonché il cambio di destinazione d’uso e la cementificazione selvaggia. Durante la seconda guerra mondiale alcuni tratti sono sfruttati dalla popolazione locale per sfuggire ai bombardamenti alleati, mentre solo dal 1997 è in atto un continuo lavoro di comprensione e ricerca della struttura la cui finalità è la catalogazione, il restauro e la preservazione.Dell’edificio originario purtroppo non rimangono molte tracce, tuttavia sulla base di queste e sulle descrizioni passate possiamo avere un quadro generale del monumento.Il tracciato dell’acquedotto percorreva circa 24 km da Santa Maria di Licodia a 400 m.s.l.m. fino a Catania, presso il convento benedettino di San Nicola, coinvolgendo cinque territori comunali. A Licodia esistono quattro diverse sorgenti che venivano incanalate in un grande serbatoio (la Botte dell’acqua), di cui ci permane solo una documentazione da parte dell’Houel. Questa struttura, una grande camera a base quadrata divisa da una parete centrale e con copertura a botte, intercettava l’acqua mediante quattro bocche per poi direzionarla ad uno specus, un canale aperto a est, verso Catania. La conduttura misurava oltre mezzo metro in larghezza e un metro e mezzo in altezza ed era coperta con una volta semicircolare impermeabilizzata all’interno con un fine intonaco costituito da malta, pozzolana e frammenti di terracotta (Opus signinum o cocciopesto). Il materiale usato per il resto dell’acquedotto era quindi la pietra lavica principalmente – sia in roccia glabra per il riempimento che in cocci ben squadrati per la copertura – un composto di malta e pozzolana per fissare i blocchi e isolare il flusso idrico (chiamato in antico emplecton), mattoni in terracotta per gli archi. Il Principe di Biscari descrisse diverse lamine di piombo rinvenute all’interno delle condotte e conservate dall’Amico nel museo dei Benedettini con sede nel loro convento. Queste lamine per l’Amico dovevano ricoprire l’intera struttura, mentre il principe più argutamente ipotizza fossero dei restauri effettuati in antico per chiudere le fessure generate dall’usura; tale restauro potrebbe essere quello menzionato dalla lapide relativa al curatores Q. Maculnius. Dal serbatoio quindi si dipartiva il lungo tragitto del canale che prevedeva salti di quota, vallate, villaggi. Per mantenere costante la pendenza la struttura si presentava ora completamente interrata, ora su un semplice muro di sostegno, mentre dove la conduttura doveva affrontare dislivelli notevoli vennero realizzati ponti-acquedotto su arcate portanti, talora anche su due file sovrapposte. Le uniche analisi effettuate ad oggi sono relative al tratto che interessa quasi esclusivamente il territorio comunale di Paternò e risalgono al 1997. Tale tratto corrisponde a circa il 20% del tracciato originale estendendosi per quasi 5 km. Qui da una quota di terra 369,50 m.s.l.m. si giunge a circa 347,50 m.s.l.m., mentre il livello di scorrimento dell’acqua va da quota 368,00 m.s.l.m. a 349,75 m.s.l.m., determinando una pendenza dello 0,0043. Si è supposta quindi una portata di 0,325 m3/s, pari a 325 litri al secondo, non discordanti con le 46 zappe previste dal Duca di Carcaci o con i 30.000 m3 giornalieri supposti dal Nicolosi. Lungo il percorso non erano infrequenti i putei, pozzi di ispezione usati anche per la manutenzione e la pulizia, di cui ancora se notano numerosi, come pure persistevano diversi castella aquae (o castelli di distribuzione, ossia cisterne di filtraggio e diramazione dell’acqua) segnalati a Licodia, Valcorrente, Misterbianco, Catania. Il castello dell’acqua di Licodia è andato perduto a seguito di lavori di sbancamento, mentre nella località Sciarone Castello di Belpasso rimangono i resti più notevoli; a Misterbianco, contrada Erbe Bianche, doveva pure esservi un castello di distribuzione che invogliava l’acqua al complesso termale in via delle Terme e di cui non restano che esigue tracce; a Catania, a poca distanza dall’attuale Corso Indipendenza, il Biscari identifica una fabbrica quadrata coperta a volta, che mostra essere stata forse una conserva d’acqua e un’altra nella vigna dei Portuesi. Il sistema avrebbe dovuto quindi raggiungere un grande serbatoio non ancora identificato e sito probabilmente sul punto più alto dell’abitato, cioè in vetta al Colle Montevergine e da qui si diramavano i tratti di acquedotto civico destinato alle fontane e terme pubbliche, a residenze private etc. Secondo alcuni autori, tra cui il Ferrara e l’Holm, il grande serbatoio si dovrebbe riconoscere nel grande Ninfeo identificato dal Biscari presso il convento benedettino: non era infrequente infatti che una cisterna venisse monumentalizzata e configurata all’esterno come un grande ninfeo. Tale edificio venne riconosciuto grazie a una lapide incisa su cui era scritto <>. Leggende. Molte porzioni dell’acquedotto, soprattutto quelle a quota terra, si sono ben conservate prevalentemente per il riutilizzo come canale di irrigazione. L’uso di un canale di antica fattura ha fatto nascere diverse tradizioni popolari – non scritte, ma tramandate oralmente – come diverse storie legate alla figura di Sant’Agata. Una di queste racconta come un nobile romano si fosse invaghito della santuzza e per dimostrarle l’immensità del suo amore – non corrisposto, in quanto la fanciulla si era promessa a Dio – fece realizzare in una sola notte un acquedotto che da Licodia sarebbe giunto ai piedi della ragazza. Altre storie locali parlano di storie fantastiche e delicate leggende, fino all’identificazione del lungo canale romano con la saja dô Saracinu.

Da Wikipedia

Foto di Etnanatura, Salvo Nicotra e Francesco Marchese

Sito Etnanatura: Acquedotto Romano

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Ponte Saraceno

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23-03-2014 17-52-52«A mettere in comunicazione le varie masse della sponda sinistra del Simeto: Maniaci, Rotolo, Corvo, S. Venera, Bronte, e tre masse con gli abitanti della sponda destra: Bolo, Cesarò, Carbone, Placa Baiana, Troina, Messina, capitale allora del Valdemone e Palermo capitale dell’Isola, il Conte Ruggiero nel 1121 fece costruire il ponte, detto dagli Arabi Càntera, che diede poi il nome alla contrada e lo dedicò alla memoria della madre sua Adelasia, morta in Patti nel 1118. Vi si leggeva questa epigrafe greca, scolpita in pietra calcarea, posta sull’ala destra del ponte, a Nord: “Fu costruito questo ponte per la serenità del glorio­sissimo conte Ruggiero di Calabria e di Sicilia e dei Cristiani aiutatore per l’assoluzione della defunta madre di lui Adelasia regina. 6629, ind. 14 (1121)”. La stessa data un pò geroglifica si legge in un quadrello di pietra lavica nella centinatura del ponte, a mezzodì; e la stessa data leggevasi pure, mi dicevano gli anziani brontesi, nella parete della Chiesa di S. Giorgio, al camposanto, fabbricata da Ruggiero nel suo passaggio da Bronte, come affermano alcune scritture storico-legali, che si conservano nell’archivio comunale di Bronte. La Chiesa ora è stata distrutta a causa del nuovo cimitero e serve da ossario. Una leggenda narra che operai saraceni furono addetti alla fabbricazione del ponte; che un saraceno, piantatosi colle gambe sulle rive opposte del fiume, abbia indicato il sito, ove esso doveva sorgere. Nella fantasia popolare: saraceno era sinonimo di gigante. Il Dio Termine però dava spesso occasione a litigi; e odi feroci fervevano nei petti dei confinanti per l’eterna lotta del mio e del tuo. Di quest’odio un ricordo è rimasto nel detto tradizionale dei Brontesi: «Sono come Maniaci e Rapiti» per dire: sono due nemici acerrimi.»

Da B. Radice, Memorie storiche di Bronte

Foto di Concetto Mazzaglia e Salvo Nicotra

Pagine Etnanatura: Ponte Saraceno.

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Grotta delle Colombe

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06-04-2014 14-07-51La grotta delle Colombe si forma a seguito della catastrofica eruzione del 1669. E’ costituita da una galleria lavica lunga circa 100 metri con la volta che arriva all’altezza di sette metri. Il pavimento è scosceso, formato da scorie e brandelli di lava saldata e sono presenti diversi rotoli mentre non sono molto diffuse le stalattiti. La presenza di un ambiente umido, alimentato da una sorgente interna di acqua, favorisce all’ingresso della grotta la presenza di una folta vegetazione di muschi e licheni. Foto di Salvo Nicotra.

Sito Etnanatura: Grotta delle Colombe.

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Stabilimento Monaco

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06-04-2014 10-17-43Un tempo, lo stabilimento “Francesco Monaco e Figli” sorgeva vicino alla stazione della Circumetnea. Il fabbricato misurava circa 125 metri di profondità con 60 di prospetto e si elevava con i suoi quattro piani per quasi 18 metri. Gli altri locali, magazzini, uffici, il fondaco, si estendevano fino a via Roma. Le attività che vi si svolgevano erano diverse: pastificio, distilleria e mulino. Nel 1910, i fratelli Monaco si divisero le diverse branche produttive, Antonino impiantò a Catania la distilleria e l’industria dei derivati dell’alcool e Lorenzo continuò a Misterbianco con il mulino e il pastificio. Il mulino in 24 ore era capace di produrre circa 500 quintali di sfarinati. Vi arrivarono a lavorare fino a 200 persone. Nel 1900 i Monaco cominciarono la produzione dei cognac. Si racconta che le loro cantine potessero contenerne costantemente una riserva di oltre 2000 ettolitri. La fama dello stabilimento era tale che, nel 1901, perfino il ministro Giovanni Giolitti volle venire a Misterbianco per visitare lo stabilimento. Nel 1919, grazie ai Monaco si ebbe la prima illuminazione elettrica; fin dal 1866, infatti, le strade del centro storico erano illuminate con fanali e lampioni a olio. Grazie a un contratto tra la ditta Monaco e il Comune, dunque, fu la zona dello stabilimento a godere di questo vantaggio. La corrente veniva erogata agli utenti senza contatore, a forfait; per avere l’illuminazione pubblica e privata in tutto il paese si dovette aspettare il 1923. Lo stabilimento contava anche attività di riparazione e manutenzione, con una falegnameria, un reparto per confezionare i sacchi, una fucina, un’officina meccanica, dotata di macchinari per l’epoca modernissimi; un grande pozzo per la necessità di acqua. Nel corso della sua lunga carriera industriale, la ditta ebbe numerosi attestati di stima e di simpatia; premi, riconoscimenti e medaglie in mostre ed esposizioni, da Catania a Palermo, a Parigi. Lo Stabilimento Monaco con le sue modernità era un’industria all’avanguardia che eccelleva nella capacità organizzativa, nella produzione e nell’esportazione. Tutto avrebbe fatto pensare a uno sfolgorante futuro e, invece, la sera del 20 aprile 1922 il fuoco (pare fatto appiccare dallo stesso Monaco, snervato dalle richieste sindacali dei lavoratori) distrusse tutto, lasciando solo le mura esterne, qualche locale e la svettante ciminiera. L’impresa Monaco era conosciuta ed apprezzata in tutto il continente, infatti numerosi furono i riconoscimenti e le onorificenze conseguite alle Esposizioni Nazionali ed Estere (all’Esposizione Universale di Parigi, nel 1900, il giurì decretava il “Grande Prix” per le paste alimentari; Medaglia d’oro a Palermo nel 1891 e a Milano nel 1906 per il “Bellini”, il “Cognac” e per lo “Champagne” ).

Da http://siciliaisoladaamare.wordpress.com/

Foto di Salvo Nicotra

Pagina Etnanatura: Stabilimento Monaco.

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Cisternazza Pisano

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09-03-2014 16-31-28La Cisternazza (‘A Cistirnazza in siciliano) è uno storico complesso monumentale del Comune di Zafferana Etnea, situato nei pressi della chiesa di san Giuseppe nella frazione Pisano Etneo. Edificata la chiesa di san Giuseppe e i locali residenziali attigui, il vescovo di Catania, Andrea Riggio, fece costruire intorno alla fine del XVII secolo, lateralmente all’edificio sacro, una monumentale cisterna, che per la sua poderosa mole venne ben presto denominata dagli abitanti locali La Cisternazza. Essa rappresenta la più antica costruzione mai rimaneggiata o riedificata esistente sul territorio comunale di Zafferana Etnea. Il complesso monumentale è costituito da una cisterna, da un cortile rialzato, da un giardino e da un portale. La grande cisterna, costruita in calcestruzzo, è profonda una decina di metri e ha un’apertura in pietra lavica dall’originale forma ottagonale, di diametro 3,20 metri. La bocca della cisterna è situata su un cortiletto rialzato, dal quale si accede per mezzo di una scalinata in pietra lavica e corredato tutt’intorno da sedili, anch’essi in basalto. Da questo stesso cortile si accedeva alla residenza del vescovo Riggio, oggi totalmente rimaneggiata e trasformata in normali abitazioni. L’acqua perveniva (e in parte perviene tuttora) alla cisterna attraverso una fitta rete di grondaie poste lungo i tetti della chiesa e degli edifici vicini. L’acqua de La Cisternazza riusciva a soddisfare le necessità dell’abitato di Pisano, ma anche dei borghi limitrofi di Bongiardo e di Fleri. Durante i periodi di siccità, frequenti nella stagione estiva, l’antica Strada Regia lungo cui si trovava la cisterna era un via vai di gente che si approvvigionava d’acqua. Attorno al cortile rialzato della cisterna si trova invece un giardino con piante e fiori, sede negli ultimi anni di spettacoli musicali all’aperto. Il complesso in origine era stato costruito con le sembianze di un piccolo fortino, tanto che vi si accedeva attraverso un monumentale portale di bugne laviche, alto 3,57 metri e largo 2,70 metri. Questo portale era un tempo chiuso da un enorme portone di legno. Ad avvalorare la tesi dell’intento dei Riggio di attribuire al luogo una funzione anche difensiva, è la presenza, fino al terremoto dell’agosto 1894, di una torre campanaria con le caratteristiche di una costruzione fortificata, di mole poderosa e provvista di feritoie e merlature. Dal testamento del vescovo Riggio si apprende che egli aveva stabilito di rifornire d’acqua i pellegrini e i viandanti che si trovassero di passaggio sulla Strada Regia, nella misura di un secchio a testa, in cambio solo di una preghiera. Attualmente il monumento è sotto la tutela del Comune di Zafferana Etnea, che ne ha recentemente curato il restauro e il ripristino del giardinetto. Da Wikipedia.

Sito Etnanatura: Cisternazza Pisano.

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Il castello del duca di Misterbianco

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08-03-2014 20-35-33Il Castello Duca di Misterbianco d’impostazione neogotica, fu edificato nel 1930 dal 9° Duca di Misterbianco Vespasiano. E’ situato all’interno dell’area “Oasi del Simeto”, in prossimità della foce del fiume. Attualmente si trova a nord rispetto al percorso del fiume, ma, fino alla metà del 1900 si trovava a sud, poiché il fiume, superato il ponte Primosole, prima di sfociare sul mare Jonio descriveva un’ansa passando più a nord. L’edificio era circondato da ettari di terreno coltivato a vigneti ed agrumeti, dotato di un pozzo per l’approvvigionamento dell’acqua, di una zona termale corredata di piscina e di un colonnato neoclassico. Il piano terra del castello era destinato ad alloggi per la servitù, locali per la lavorazione dei prodotti raccolti nei campi, con un palmento, il frantoio, le scuderie e magazzini deposito. L’accesso avveniva dai cinque archi presenti a sud della struttura. In tale piano si trovavano due scale, una nell’angolo sud-ovest a due rampe che permetteva l’accesso al loggiato posto ai piani superiori e l’altra posta in posizione centrale rispetto al manufatto, che permetteva l’accesso al livello superiore sia in direzione ovest, quindi verso il loggiato, che in direzione est, permettendo l’accesso sulla terrazza con vista sul mare. Dal primo piano, dall’angolo nord-ovest, si elevava una magnifica torre quadrangolare su cinque livelli fuori terra, che costituiva il loggiato dello stabile, mentre nell’angolo sud-ovest vi erano quattro archi a sesto acuto sorretti da colonne e capitelli. La parte centrale del primo piano era adibita al soggiorno della famiglia, con finestre, aperture ad arco e terrazzi che permettevano di vedere la vegetazione circostante ed il mare. Nella parte centrale, si elevava un’altra piccola edificazione costituendo il secondo piano. Le parti sommitali del castello erano tutti coronati da merli. Il castello costituiva la dimora estiva della famiglia Trigona. Rimase in buono stato fino alla terribile battaglia che si combatté tra il 14 e il 17 luglio del 1943 al Ponte Primosole. In quella occasione, il castello fu occupato prima dai tedeschi e dopo dagli inglesi (Royal Artillery) come posto di osservazione. La torre alta 30 metri in posizione dominante, fu distrutta dall’ultima cannonata dei tedeschi alle ore 17 circa e non fece neanche un morto poiché le guardie inglesi erano a consumare il tè pomeridiano.

 

Le origini della famiglia Trigona.

 

La famiglia Trigona trae origini dai duchi “de Monti Chirii in Isvevia” (Germania sud-occidentale) e dal duca Salardo, il cui figlio Coraldo, acquistando il castello e la signoria di Trigona o Trigonna, in Picardia (Francia settentrionale), prese il cognome. Un discendente di Coraldo, Ermanno, valoroso capitano dell’imperatore Federico II di Svevia, ricevette per i servigi offerti al re, diverse ricompense, tra cui, nel 1239 la nomina di governatore di Mistretta. Un discendente di Ermanno, Giacomo, sposandosi nel 1369 con Margherita d’Aragona, figlia di Giacomo, nipote di Pietro d’Aragona II, re di Sicilia, ricevette lo stemma originario con l’aquila nera della Casa Reale d’Aragona. Lo stemma del Casato Trigona raffigura un’aquila nera coronata, recante sul petto uno scudo con incisa una cometa che illumina un triangolo. Da quando fu affidata la Piazza del Castello della città di Mistretta al Capitano Ermanno, la famiglia Trigona entrò a far parte di una casta nobiliare assai nota in quasi tutti i maggiori centri Siciliani, possedendo molti vassallaggi, signorie e feudi.

 

Il ducato di Misterbianco.

 

Nel XVII secolo, Vespasiano Trigona di Piazza Armerina, acquistò il Casale di Misterbianco, dove si trasferiva con la famiglia nei mesi caldi dell’anno. Il figlio Francesco sposò Felicita Paternò Castello, nipote del Principe Agatino Paternò Castello, dalla quale ebbe un figlio, Pietro Domenico. Quest’ultimo, grazie all’influenza della famiglia materna Paternò Castello, ricevette nel 1685 il titolo di Duca di Misterbianco dal re Carlo II di Spagna. Con Pietro Domenico nacque il Ducato di Misterbianco ed i successori furono nell’ordine: Tullio zio di Pietro Domenico, Vespasiano, Mario, Vespasiano, Alberto, Vespasiano, Alberto, Vespasiano, fino al 10° Duca Alberto nato a Catania il 27.02.1928.

Le foto e le informazioni si devono ad un paziente lavoro di ricerca dell’amico Salvo Nicotra.

Sito Etnanatura: Castello del duca di Misterbianco.

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Bastione degli infetti

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26-03-2014 07-32-51Il bastione degli infetti si trova sulla collina di Montevergine, antica acropoli di Catania.
Già Cicerone, parlando dei furti di Verre, definisce il tempio di Cerere, Che doveva sorgere dove oggi troviamo i resti del Bastione degli infetti come tempio di gran culto. Ecco la citazione di Cicerone:
“Nella parte più interna si trovava un’antichissima statua di Cerere, che le persone di sesso maschile non solo non conoscevano nel suo aspetto fisico, ma di cui ignoravano persino l’esistenza. Infatti a quel sacrario gli uomini non possono accedere: la consuetudine vuole che le celebrazioni dei riti sacri avvenga per mezzo di donne sia maritate che nubili…Esiste un’antica credenza che si fonda su antichissimi documenti e su testimonianze greche, che tutta l’isola siciliana sia consacrata a Cerere e Libera. Non è una profonda persuasione, a tal punto da sembrare insito e connaturato nel loro animo. Infatti credono che queste dee siano nate in quei luoghi e le messi in quella terra per prima siano nate in quella terra per prima siano state scoperte, e che Libera, che chiamano Proserpina, sia stata rapita da un bosco degli Ennesi”.
In seguito il vescovo Leone II detto il Taumaturgo fece distruggere, come ricordano gli Atti Latini, il tempio utilizzando le sue pietre per costruire l’allora Cattedrale di Catania che corrisponde con l’attuale chiesa di sant’Agata la Vetere (vedi).
Le Mura di Carlo V erano un complesso murario che venne fatto realizzare a Catania dall’imperatore Carlo V a difesa della città: esse erano costituite da undici bastioni ed avevano sette porte di accesso alla città. L’incarico della costruzione venne dato all’architetto Antonio Ferramolino all’inizio del XVI secolo ma la costruzione andò avanti con molta lentezza vista la complessità dell’opera. Esse racchiudevano completamente la città del tempo e la difendevano dai pericoli esterni. Ma, prima l’eruzione dell’Etna del 1669 e poi il terremoto del 1693 le rovinarono gravemente, ma la loro scomparsa definitiva si deve al piano di rinnovo urbano del XVIII secolo. Una delle poche testimonianze rimaste è costituita dal Bastione degli infetti costruito nel 1556 ad opera del vicerè Vega.

Accanto ai resti del Bastione degli infetti ritroviamo la Torre del Vescovo. La torre si ritene fondata agli inizi del XIV sec. (1302 d.C.?) ed è parte integrante dell’antica cinta muraria aragonese. Venne acquistata dal vescovo Antonio de Vulpone e trasformata, insieme all’area antistante, in lazzaretto. L’edificio si caratterizza per la pianta quadrata e la tecnica edilizia (non uniforme) costituita da pietrame lavico appena sbozzato, inzeppato con frammenti di terracotta e legato insieme da malta. I cantonali sono rinforzati con blocchi di pietra lavica squadrati. Della torre si conservano solo tre dei quattro muri perimetrali, solo quelli rivolti verso l’esterno della cinta muraria. Si tratta, probabilmente, di un semplice accorgimento architettonico: in caso di assedio e di conquista della cinta muraria, gli attaccanti non avrebbero potuto utilizzare la torre contro la città, essendo essa, in corrispondenza del lato meridionale, esposta al tiro degli arcieri. L’edificio conserva solo le saettiere del primo piano, sebbene sia probabile che esistesse anche una seconda elevazione, oggi del tutto scomparsa. Il pavimento di entrambi i piani doveva essere ligneo. Non si conserva merlatura e la scarpa del pianterreno appare come aggiunta posticcia di tempi relativamente recenti. Nel XVI sec. il lazzaretto si estese, comprendendo oltre alla Torre del Vescovo anche il limitrofo bastione di Carlo V. Il nuovo complesso prese il nome di “Ospedale degli Infetti“» (le notizie sulla torre si devono al sito medioevosicilia.eu).

Sito Etnanatura: Bastione degli infetti.

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Campanarazzu

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03-03-2014 13-30-51L’undici marzo del 1669, preceduta da una serie di terremoti, l’Etna inizio ad eruttare: fu la colata lavica più distruttiva che si conosca. Il 29 marzo la colata raggiunse e seppellì l’attuale cittadina di Misterbianco risparmiando solo il campanile dell’antico monastero di Santa Maria De Monasterio Albo che da allora prese il nome di Campanarazzu. Notizie storiche precedenti fanno risalire l’edificazione della chiesa perlomeno all’anno 1353 anche se il tempio dovette subire molte trasformazioni nel XVI secolo. Il successivo tremendo terremoto dell’undici gennaio del 1693 determinò la caduta rovinosa del campanile. Una campagna di scavi condotta dalla sovrintendenza di Catania nel 2009 riportò alla luce i resti dell’antica chiesa. Del primitivo impianto è rimasto ben poco: un portaletto tardo-Gotico bicromo e forse anche i resti del battistero e di una cripta. Le paraste, gli altari e il cappellone centrale denunciano l’appartenenza al primo Rinascimento siciliano, mentre il pavimento esagonale è chiaramente di fattura secentesca. Al di sotto sono state individuate diverse cavità interpretate come cripte. Il sito è ancora adesso privo di copertura, in balia delle intemperie dei vandalismi reiterati. Un ringraziamento per le foto e le notizie va a Michele Torrisi e Salvo Nicotra.

Sito etnanatura: Campanarazzu.

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