Il fantasma

Share Button

05-03-2014 08-24-05

Per Catania si aggira un fantasma che conserva i ricordi del tempo. Molti anni fa non era tale anzi condivideva la vita, gli amori e la storia dei catanesi: le passeggiate di Stesicoro, i bagni termali dei romani lascivi, la storia-fiaba di Gammazita al tempo dei vespri, le opulenze dei re normanni e la vita dei comuni cittadini. Poi un’immane catastrofe lo costrinse a nascondersi nelle viscere della terra e ad emergere solo in pochi tratti sconosciuti ai più. Il nostro fantasma si chiama Amenano.

Moneta romana raffigurante il dio Amenano

Moneta romana raffigurante il dio Amenano- Wikipedia

Per gli antichi greci l’Amenano era un dio rappresentato nelle monete con il corpo di un toro e la faccia umana. Sicuramente la presenza di un fiume dovette essere un motivo dirimente per la localizzazione dell’antica città di  Kατάvηquando i coloni calcidesi la fondarono, sotto la guida di Tucle, nel 729 a.C. Il nome del fiume probabilmente è dovuto ad una intermittenza del flusso delle acque (ameneinos) come ci ricorda lo studioso Carlo Gemmellaro a cui molto dobbiamo nella stesura di queste note (“Per le accresciute acque dell’Amenano” relazione Carlo Gemmellaro all’Accademia Gioenia di Scienze nel 1833 – vedi). Citato da Strabone nel suo libro quinto del Rerun Geographcarum (“Quod Amenano evenire fluvio » perhibent Catanam perfluenti, qui per aliquot …”), viene nominato anche da Ovidio (“nec non Sicanias volvens Amenanus harenas nunc fluit, interdum”) nel libro XV delle Metamorfosi. Nel medioevo il fiume venne chiamato Iudicello perché attraversava il quartiere ebraico della Giudecca. Ma nel 1669 una terribile eruzione dell’Etna, considerata la più devastante eruzione storica del vulcano, arrivò fino a Catania coprendo il lago di Nicito dal quale si dipartivano ben 36 canali che alimentavano i rami dell’Amenano dentro la città di Catania. Da allora il fiume diventa un fantasma nascosto fra le viscere della città.

Cerchiamo ora di ricostruirne il percorso sotterraneo del fiume. La fonte prima del nostro lavoro è senz’altro il Gemmellaro, ma alle note dello studioso abbiamo voluto affiancare alcune considerazioni che ci sembrano logiche (quale la presenza di edifici termali) e i ricordi di qualche amico prezioso (primo fra tutti Concetto Mazzaglia).


Visualizza Fiume Amenano in una mappa di dimensioni maggiori
Partendo dal colle Majorana nella zona detta, forse non a caso, Acquicella, il fiume dovrebbe discendere lungo l’attuale viale Mario Rapisardi fino a piazza Santa Maria di Gesù dove anticamente si allargava a formare il lago Nicito. Da qui dovrebbe diramarsi in due tronconi prevalenti.

Fontana largo Paisiello

Fontana largo Paisiello

Il primo ramo del fiume arriva al giardino Bellini lungo viale Regina Margherita, passa sotto la moderna fontana di largo Paisiello (alimentata proprio dalle acque del fiume), scorre sotto il palazzo ex Cassa di Risparmio edificato dopo avere demolito la scuola Turrisi Colonna pericolante perché costruita sul fiume, quindi si

Terme Achilliane

Terme Achilliane

dirige sotto il pozzo Villallegra e il Monastero di S. Giuliano in via Crociferi, scende per piazza Duomo dove è visibile in quanto allaga le terme Achilliane (vedi) e finisce nel mare.

Terme dell'Itria

Terme dell’Itria

Il secondo ramo, partendo sempre da piazza Santa Maria del Gesù, scorre sotto via Lago Nicito e poi per via Pebliscito, via Botte dell’Acqua e piazza Itria dove si trovano i resti delle terme romane dell’Itria,

Balneum piazza Dante

Balneum piazza Dante

arriva a Piazza Dante dove sono visibili i ruderi di un antico Balneum (si tratta di terme private di epoca romana). Da qui dovrebbe verificarsi un’ulteriore diramazione.

Pozzo Gammazita

Pozzo Gammazita

Un ramo del fiume scende per via Quartarone e poi per via Orfanelli, attraversa via Garibaldi e via Vittorio Emanule per arrivare in via San Calogero dove si trova il pozzo di Gammazita (vedi),

Terme dell'Indirizzo

Terme dell’Indirizzo

quindi probabilmente arriva alle terme dell’Indirizzo (vedi).

Grotta Amenano

Grotta Amenano

Nei pressi delle terme è possibile scendere nella grotta Amenano (vedi) dove ancora oggi si vedono scorrere le acque, da lì al mare il tratto è molto breve. Questo ramo attraversa quello che era il quartiere ebraico di Catania e che dette al fiume il nome Iudicello. Nelle ricostruzione di questo tratto, per lo meno nella parte iniziale, ci siamo voluti attenere alle indicazioni di Gemmellaro.

Balneum casa Sapuppo

Balneum casa Sapuppo

Resterebbe però stranamente escluso il Balneum di Casa Sapuppo (vedi) in piazza Sant’Antonio che comunque a qualche fonte doveva pur attingere per alimentare le terme.

Terme della Rotonda

Terme della Rotonda

Ma da piazza Dante si diparte un terzo affluente che probabilmente scende per via della Rotonda con le antiche e affascinanti terme della Rotonda (vedi).

Teatro romano

Teatro romano

e poi attraversa l’Odeon e il Teatro Romano (vedi) dove riemerge allagando la cavea.

Antico lavatoio

Antico lavatoio

Quindi scorre sotto piazza Santa Maria del Gesù, arriva a piazza Duomo dove riemerge nella fontana dell’Amenano e nell’antico lavatoio.

Villa Pacini

Villa Pacini

Ancora un breve tratto sotterraneo per tornare alla luce nella villa Pacini e finire la corsa nel porto di Catania.

Per finire devo ringraziare Salvo Nicotra e Concetto Mazzaglia, due amici di Etnanatura che hanno contribuito con foto e notizie.

Siti Etnanatura:

Share Button

Grotta del Crocifisso

Share Button

03-03-2014 08-07-37La grotta risulta composta da almeno due ambienti quadrati simmetrici, comunicanti attraverso un varco. Il vano di destra appare leggermente più ampio dell’altro e, per la presenza di un’abside scavata immediatamente a destra dell’ingresso ad Est, si configura coma la vera e propria chiesa. Il vano di sinistra, invece, che adesso ha un ingresso autonomo, probabilmente in origine una finestra, sembra frutto di una ricostruzione settecentesca che lo adibì a culto. Le notizie documentarie sulla grotta sono scarsissime se si esclude il graffito con data 1764 posto sulla porta d’ingresso al vano e dovuto ad una risistemazione dello stesso grazie ad eremiti laici locali. Antecedentemente, probabilmente nel XVI secolo, il vano era stato adibito a sepolcreto, come risulterebbe dalla lettura del pavimento e del vano sottostante quest’ultimo, riconoscibile come ossario. A questo periodo, probabilmente, sono dovuti ingenti lavori di ristrutturazione dello spazio sacro, con l’apertura di due varchi tra i due vani principali del complesso e del listello di roccia che divide il vano dedicato al culto e, infine, con l’escavazione di un ambiente atto a rendere più profondo l’invaso principale. In seguito a questi lavori si attuò una sorta di ribaltamento dell’asse della chiesa con il posizionamento dell’altare di fronte all’ingresso, dedicato alla Vergine, come attesterebbe un affresco cinquecentesco ancora tardo gotico. Circa la scoperta della grotta è necessario risalire fino a E. Bertaux che la considera come l’unica dell’Isola; studi ulteriori sono quelli di P. Orsi, S. Ciancio, G. Agnello e, infine, A. Messina. La chiesa del Crocifisso presenta il più complesso apparato iconografico della Sicilia rupestre. In essa, infatti, è testimoniata la continuità del culto del luogo con la presenza di almeno cinque fasi decorativa che non possono essere definite semplici pitture votive ma, almeno per quanto riguarda i dipinti del secondo strato (nel catino absidale e lungo le pareti della chiesa, con la presentazione della teoria dei santi), fanno parte di un vero e proprio programma iconografico rinnovato in tempi diversi. La cattiva leggibilità degli affreschi non permette una sicura ipotesi circa la datazione degli stessi; essa può essere solo accennata su base archeologica e, solo dove i lacerti pittorici lo permettono, su analisi stilistiche. Apparterrebbero ad una prima fase di frequentazione della grotta (XII sec) piccole tracce di affreschi posti lungo la parete meridionale del vano maggiore, coperti da pannelli di poco più recenti. Essi sono distribuiti in formelle disposte su almeno tre ordini e rappresenterebbero Scene del Giudizio Universale riprendendo un tema iconografico molto comune nel mondo medioevale. Al XIII secolo sono riferibili porzioni di affreschi organizzati per pannelli isolati; essi occupano la parete e la conca absidale ad est e rappresentano: la Crocifissione e il Pantocrator. La Crocifissione è, purtroppo, molto frammentaria tanto da permettere l’identificazione solo del Cristo con la testa reclinata e della Vergine. Il Pantocrator è racchiuso in una mandorla decorata con crocette bicrome rosse e nere, assiso in trono e affiancato da una coppia di angeli. L’iconografia del Cristo è affine a quella del Duomo di Cefalù e altri particolari, permettono di ravvisare forti contatti con la pittura bizantina dell’inizio del XIII secolo. Presumibilmente vicini a tali lacerti pittorici sono i pannelli del cosiddetto Polittico di San Leonardo: Santa Elisabetta, la Mater Domini, San Leonardo, San Giovanni Battista e un Santo vescovo. La “galleria” iconografica della chiesa si arricchisce, poi, nei secoli XIV – XVII con le rappresentazioni di Santi legati all’Occidente e, in particolare, si ipotizza al mondo francescano. A quest’epoca, infatti, possono datarsi i pannelli di un Santo vescovo (Eligio?), S. Chiara o S. Caterina da Siena (?), S. Pietro, Santo cavaliere su cavallo bianco, San Calogero, un Santo diacono, e quindi un Cristo Viandante e un San Cristoforo, Madonna del Carmine (Madonna con Bambino), Madonna in trono. Didascalia: S(AN)C(T)A [MA]RIA DE O[DI]GI[TRIA], Santo vescovo, Madonna del Latte (Madonna dell’Umiltà), Madonna Elusa, Mater Domini, Santa Margherita con sei formelle con scene della vita. Osservazioni La chiesa del Crocifisso è tra le più importanti del folto gruppo ecclesiastico rupestre siciliano. Nonostante gli studi sullo sviluppo planimetrico del complesso siano ancora lacunosi, un grande aiuto per la comprensione piena del valore della grotta viene dall’eccezionale apparato iconografico. Attraverso lo studio di esso, infatti, si può dedurre che originariamente la grotta fosse dedicata alla Vergine (in tal modo si spiegherebbe l’affresco cinquecentesco posto sull’altare di fronte all’ingresso) e l’intera decorazione della parete nord, con pannelli legati al culto mariano. È possibile, inoltre, che in tale grotta fosse localizzato il culto di Santa Maria della Cava, cui era intitolata la prima cattedrale di Lentini. Riguardo la nuova denominazione di “grotta del Crocifisso” è possibile che essa fosse legata alla rappresentazione di un Crocifisso a sinistra dell’abside, probabilmente, di epoca secentesca. Da http://www.iccd.beniculturali.it.

Un grazie a Concetto Mazzaglia per la segnalazione e le foto.

Sito etnanatura: Grotta del Crocifisso.

Share Button

La fiaba di Gammazita

Share Button

27-02-2014 16-25-19Oggi vi racconto una fiaba ….

La leggenda narra di una fanciulla catanese di nome Gammazita, bellissima e di grande virtù. Di lei si invaghì un soldato francese, le cui avances furono però disprezzate dalla giovane, che era già fidanzata. Proprio nel giorno del suo matrimonio, mentre Gammazita si recava come sempre a prendere l’acqua, il soldato la aggredì violentemente e la ragazza, vistasi preclusa ogni via di scampo, preferì gettarsi nel vicino pozzo piuttosto che cedere al disonore. Versioni successive arricchiscono il racconto, romanzandolo e aggiungendo altri personaggi di contorno. In esse si fa preciso riferimento all’anno in cui si sarebbe svolto tale avvenimento, il 1278, e si racconta di donna Macalda Scaletta, bellissima e orgogliosa vedova del signore di Ficara, che attirava la corte di tutti i cavalieri francesi e siciliani. Essa, tuttavia, innamoratissima del suo giovane paggio Giordano, sfuggiva a tutte le proposte amorose. Un giorno però Giordano vide la giovane Gammazita intenta a ricamare dinanzi alla soglia della sua casa e se ne innamorò perdutamente. L’amore dei due giovani destò le ire e la folle gelosia della perfida Macalda, che si accordò con il francese de Saint Victor per tendere loro un tranello: questi avrebbe dovuto far capitolare Gammazita e Macalda sarebbe stata sua. De Saint Victor fece numerose imboscate, approfittando in particolare delle volte in cui Gammazita si recava ad attingere acqua alla vicina fonte. Un giorno riuscì infine ad afferrare la fanciulla, ma essa si divincolò dalla sua stretta e non vedendo altra via di scampo, per il suo onore preferì gettarsi nel vicino pozzo. Giordano, appreso quanto accaduto, in preda alla disperazione assalì il suo nemico, uccidendolo a pugnalate dinanzi al cadavere dell’amata. La fine orrenda della fanciulla e la sua virtù destarono in tutti i catanesi profonda commozione e furono sempre citati come esempio del patriottismo e dell’onestà delle donne catanesi, mentre i depositi di ferro che creavano macchie rosse sulle pareti del pozzo furono spiegati tradizionalmente come tracce del sangue di Gammazita. A questa patetica storia, si affiancano altre leggende che spiegano diversamente l’origine del toponimo “Gammazita”. La prima si trova nel panegirico scritto da don Giacomo Gravina in onore del duca di Carpignano, don Francesco Lanario, dal titolo La Gemma zita[4]: in esso si racconta la storia delle nozze fra la ninfa Gemma e il pastore Amaseno (o Amenano). Il dio Plutone (secondo il Gravina, Polifemo) si invaghì della ninfa, scatenando la gelosia di Proserpina, che la trasformò in una fonte. Gli dei, toccati dalla disperazione di Amaseno, trasformarono anch’egli in una fonte: il pozzo sarebbe dunque il luogo in cui si uniscono le acque dei due sfortunati amanti. Secondo questa versione, il nome Gammazita nascerebbe dunque dall’unione delle due parole gemma e zita (“fidanzata”, “sposa”), modificate poi dall’uso comune. Un altro racconto parla di un uomo con una gamba rigida che abitava in una grotta vicino alla fonte, che dunque prenderebbe il nome da questo suo difetto fisico (iamma zita), mentre una terza spiegazione lega il toponimo a due misteriose lettere dell’alfabeto greco, una gamma e una zeta, che sarebbero incise sull’antico muro che fiancheggia la fonte. Antica pianta di Catania (1575 circa): si notano in basso tre rivoli che si perdono nel mare. Il primo da sinistra, quello più vicino al Castello Ursino, corrisponde alla fonte che alimenta il Pozzo di Gammazita. La parte della città dove sorge il pozzo nel Medioevo era la sede della Judeca Suttana (il quartiere ebraico, detto anche Judeca di Jusu) ed era piuttosto ricca di attività commerciali, in particolare concerie e macellerie, che sfruttavano le numerose sorgenti d’acqua, forse diramazioni del fiume Amenano che scorre nel sottosuolo catanese e che qui prendeva il nome di Judicello. Le mura in questo tratto costeggiavano i ruderi di antiche fabbriche che prendevano il nome di Muro rotto e vennero identificate dal Bolano quale l’antica naumachia e il circo, segno che in età antica l’area era impegnata da grandi strutture pubbliche monumentali. In tutte le piante e disegni di Catania, a partire da quella di Michelangelo Azzarelli (1584), la cortina muraria che si congiungeva a gomito con la Porta dei Canali e con il Bastione di Santa Croce, viene chiamato Gammazita e lì sono segnate queste fonti, inizialmente come dei rivoli che si perdevano nel mare. Nel 1621, don Francesco Lanario, duca di Carpignano, soprintendente generale alle fortificazioni, nell’ambito di un generale restauro dell’assetto difensivo della città, volle risistemare anche la zona della fonte. Le acque di Gammazita furono così imbrigliate e congiunte a quelle dell’Amenano, realizzando una serie di fontane pubbliche che arricchirono e resero più gradevole la passeggiata a mare, anche grazie alla realizzazione di una strada lastricata, munita di panchine. Questa piacevole sistemazione però ebbe vita breve. L’11 marzo 1669, da una frattura sopra Nicolosi cominciò la più imponente eruzione dell’Etna di epoca storica che abbia raggiunto Catania e, dopo aver distrutto orti e casali, giunse alle mura della città, riuscendo a superarle da nord-ovest, nella zona del Monastero di San Nicolò l’Arena, per poi dirigersi verso il Bastione di San Giorgio a sud. Il 16 aprile, il fiume lavico circondò il Castello Ursino, colmandone il fossato, e invase tutta l’area del quartiere dell’Indirizzo, ricoprendo, nonostante gli sforzi di difesa messi in atto dai catanesi, anche le sorgenti, fra cui quella di Gammazita. La fonte rimase così sepolta sotto uno strato di 14 metri di lava, ma la sua importanza nella vita e nell’economia cittadina fece sì che fin già verso la metà del XVIII secolo fu riportata alla luce. Venne a crearsi così un singolare pozzo artificiale, ricavato nella sciara del 1669 e costituito dalla profonda scarpata delle mura civiche cinquecentesche che terminava sul fondo dove si accumulava una sorgente, ciò che rimaneva delle tre fonti pre-eruzione. Al fondo si giungeva con una pittoresca scalinata ricavata nel Settecento la quale si addossava alle lave e alla cortina muraria. La riscoperta e la fama della fonte, in quest’età, si devono soprattutto agli intellettuali europei che visitarono Catania nell’ambito del Grand Tour, in particolare Patrick Brydone, l’abate Richard de Saint-Non, Jean Houël, Dominique Vivant Denon. Saint-Non e Houël, in particolare, hanno lasciato anche delle raffigurazioni che testimoniano lo stato del pozzo nel Settecento e il suo aspetto pittoresco e nel pieno della ricerca della fascinazione della decadenza di concezione romantica, che tanto affascinava i viaggiatori stranieri. In tali immagini, soprattutto in quella di Saint-Non, si nota tuttavia una distorsione delle proporzioni, che fanno apparire il pozzo più grande di quanto non sia in realtà, e soprattutto l’inserimento di uomini intenti alla pesca, come se la vasca di raccolta delle acque fosse adibita anche a peschiera. Non sappiamo se questo corrisponda a verità o se sia un elemento aggiunto dall’autore per accentuare il carattere pittoresco del sito. Fra coloro che visitarono la fonte, merita di essere ricordata la descrizione che ne lascia Charles Didier che, fra i monumenti visitati in città, dice che “fra le più curiose è un frammento delle antiche mura della città interamente coperto di lava: ai piedi di esso una fontana che manda acqua di una freschezza e di una limpidezza che sono degne di Aretusa”[11] Il Pozzo di Gammazita si apre in un cortile fra case terrane ottocentesche di via San Calogero, a due passi dal Castello Ursino. L’accesso avviene attraverso una scala di sessantadue gradini che sostituisce quella originaria in pietra lavica e ciottoli, distribuiti in cinque rampe, interrotte da pianerottoli rivestiti di pietra lavica e cotto siciliano, che portano ad un livello di circa 12 metri sotto il livello stradale. Alla base della scala si apre uno stretto spazio, anch’esso pavimentato in cotto siciliano chiuso da un tratto residuo della cortina muraria cinquecentesca: qui scorreva l’acqua sorgiva, in una vasca su cui incombe l’imponente massa lavica. Altre costruzioni e superfetazioni moderne accerchiano il pozzo, accentuando l’impressione di una profonda voragine scavata nel basalto. La tragica storia di Gammazita ha dato anche spunto ad una famosa poesia popolare anonima catanese: « Tu di lu cori sì la calamita La mia palora non si cancia e muta; Ti l’hè juratu e ti saroggiu zzita, Chista mè porta ppi l’autri è chiujuta: Cala li manu si mi voi pi zzita, l’ura di stari ‘nzemi ‘un è vinuta: si cchiù mi tocchi, comu Gammazita, Mi vidi ‘ntra lu puzzu sippilluta.» Da wikipedia

Etnanatura: Il pozzo di Gammazita.

Foto di Salvo Nicotra

Share Button

Sant’Agata la Vetere

Share Button

Sito Etnanatura: Sant’Agata la Vetere.

Se c’è un luogo di Catania dove la leggenda e la storia, il mistero e la religione s’intrecciano in un fascinoso groviglio quasi inestricabile, ebbene questo luogo è la chiesa di Sant’Agata la Vetere.

Nell’anno 264, tredici anno dopo il martirio, il vescovo San Everio stabilì l’erezione di una edicola votiva nel luogo dove Agata subì il taglio delle mammelle su ordine del proconsole Quinziano. Dopo l’editto di Costantino il vescovo San Severino, nell’anno 380, fece costruire un vero edificio di culto all’interno del quale custodire il corpo di Agata in un sarcofago romano ancora presente sotto l’altare maggiore. Ampliata in forma di basilica, fu cattedrale della città di Catania fino l 1091 quando il conte Ruggero dispose la costruzione dell’attuale cattedrale consacrata nel 1094. Distrutta dal terribile terremoto dell’11 gennaio del 1693 fu ricostruita nel 1722. Ma della vecchia basilica sono ancora visibili alcuni tratti sotto il pavimento della nuova chiesa e la cripta, rimasta pressoché intatta, che conserva ancora gli scolatoi per la mummificazione dei cadaveri. Subito dopo l’ingresso si trova la cassa in legno che per oltre 500 anni custodì le spoglie di sant’Agata.

Sito Etnanatura: Sant’Agata la Vetere.

 

Share Button

Terme dell’Indirizzo

Share Button

05-03-2014 07-59-25Le terme dell’Indirizzo sono costituite da alcuni resti di un complesso termale romano risalenti al II secolo. Il complesso evidenzia un calidarium ed un frigidarium, oltre alle fornaci per il riscaldamento dell’acqua e dell’aria e tutte le canalizzazioni per l’approvvigionamento dell’acqua e quelle per lo scarico. Altri ambienti accessori sono evidenziati a livello di fondamenta. La dizione Indirizzo si riferisce al vicino Convento carmelitano dell’Indirizzo, così denominato per un miracolo che avrebbe salvato il viceré Pedro Téllez-Girón, terzo duca di Osuna nel 1610. Sorpreso da una tempesta mentre si avvicinava alla costa durante la notte, venne salvato da una luce votiva di detto convento che lo “indirizzò” al porto. Wikipedia.

Sito Etnanatura: Terme dell’indirizzo.

Share Button

Riserva Immacolatelle e Micio Conti

Share Button

cantarellaLa Riserva naturale integrale Immacolatelle e Micio Conti, estesa circa 70 ettari, ricade all’interno dei comuni di San Gregorio di Catania e Aci Castello. Istituita con decreto dell’assessorato Territorio e Ambiente della Regione Siciliana (numero 617/98), la riserva è interna ad un’area di notevole bellezza paesaggistica, tra l’Etna e il golfo di Catania, e comprende un importante sistema di grotte di scorrimento lavico colonizzate da fauna cavernicola con elementi troglofili legati al guano di colonie di pipistrelli. Il territorio, parte di un vasto sistema ambientale lineare che da San Gregorio di Catania si spinge sino ad Acireale, è caratterizzato dalla presenza di un’area protetta all’interno di un’area metropolitana densamente abitata. Il paesaggio agrario è quello tipico del “vigneto costruito” con la presenza di un sistema diffuso di ‘casudde’ (piccoli edifici rurali in pietra lavica per lo più non intonacata) che un tempo costituivano il centro vitale dei fondi. Di una certa importanza testimoniale è la Guardiola Cantarella, una garitta spagnola del ’600 che caratterizza i quadri visuali dell’area. La genesi delle grotte vulcaniche è legata allo svuotamento del tunnel lavico che può avvenire durante o al termine di una eruzione di durata superiore ad un mese. Il Complesso Immacolatelle e Micio Conti è costituito da un sistema di otto cavità laviche avente una lunghezza complessiva di circa 1,5 km, situato all’interno di un campo lavico a morfologia hawaiiana. Alle grotte si accede attraverso ingressi creatisi per il crollo delle volte. All’interno delle cavità sono presenti interessanti fenomeni morfologici: particolari striature sulle pareti lasciate dal passaggio della lava e piccole stalattiti di rifusione sulla volta, osservabili all’interno delle grotte Micio Conti e Cantarella; caratteristici rotoli di lava alla base delle pareti generate dal parziale raffreddamento del tunnel lavico che caratterizzano il complesso di grotte Immacolatelle; “cascate” di apparati radicali appartenenti alla soprastante vegetazione che dalla superficie penetrano all’interno della grotta dei Tedeschi ornandone la volta. Il sistema di grotte presenti nella riserva ospita una fauna cavernicola peculiare, adattata alle particolari condizioni ecologiche dell’ambiente ipogeo: ben sei sono le specie di Chirotteri (pipistrelli) che nelle grotte trovano possibilità di rifugio diurno ed un ambiente idoneo per svernare; numerosi anche gli invertebrati (Ragni, Crostacei Isopodi, Collemboli) ed un pidottero notturno (Noctuide), soltanto recentemente segnalato all’interno della Riserva. L’epigeo offre ambienti idonei per una grande quantità di invertebrati, fra i quali una preziosa ape endemica della Sicilia, che prende il nome dall’area della riserva (Pseudoanthidium gregoriense); fra i Vertebrati annoveriamo diversi Rettili, la Lucertola campestre, il Gongilo (Chalcides ocellatus) ed il variopinto Colubro leopardino (Elaphe situla). I Mammiferi sono rappresentati dal Coniglio (Oryctolagus cuniculus) e dalla Volpe (Vulpes vulpes). Molte sono le specie di uccelli che popolano la riserva principalmente rappresentati da Passeriformi, da alcuni Falconiformi come il Gheppio (Falco tinnunculus), e da Strigiformi come Assiolo (Otus scops) e Barbagianni (Tyto alba). Il territorio conserva lembi di relitti di vegetazione forestale termofila a querce caducifoglie, vera rarità per il comprensorio etneo. Sulle creste rocciose si scorge l’euforbia arborescente (Euphorbia dendroides) che, assieme all’alaterno (Rhamnus alaternus), l’ogliastro (Olea europea), il terebinto (Pistacia terebinthus) ed altre piante mediterranee, tende a ricostituire una tipica vegetazione di macchia. All’ombra delle formazioni rocciose laviche è presente la rara Aristolochia altissima assieme alla calistegia e la brionia (Bryonia dioica). Negli spazi aperti e pietrosi, si rinviene una vegetazione steppica a barboncino comune (Hyparrhenia hirta) tra i cui cespugli si trova la Serapias vomeracea, una graziosa orchidea. Nei terreni un tempo adibiti a coltivo svetta la candida infiorescenza dell’asfodelo (Asphodelus microcarpus) e della ferula (Ferula communis), mentre sulle superfici laviche delle colate si rinviene un molteplicità di piccole piante dalle variopinte fioriture primaverili, tra queste la Campanula dichotoma e numerose succulente annuali come il Sedum rubens. Da Wikipedia.

Siti Etnanatura:

Immacolatelle Micio Conti

Grotte Immacolatelle

Grotta Micio Conti

Grotta Cantarella

Grotta delle Fate

Share Button

Le terme romane di Misterbianco

Share Button

25-02-2014 18-12-53Le terme romane di Misterbianco furono costruite grazie all’acquedotto licodiano di età greco-romana, che portava l’acqua da S. Maria di Licodia a Catania. Si tratta di un piccolo edificio termale appartenente ad una villa privata. Il corpo centrale risale alla tarda età imperiale tra la fine del II e gli inizi del III secolo d.C. L’ampliamento settentrionale dovrebbe risalire alla fine del IV secolo. Fra il quinto e l’ottavo secolo l’edificio fu arricchito da altri vani probabilmente per uso abitativo.

Foto di Salvo Nicotra

Sito Etnanatura: Terme romane di Misterbianco

Share Button

Il ponte romano di Pietralunga

Share Button

1779128_10202635896532999_818019238_nI romani furono abilissimi maestri nella costruzione di ponti, acquedotti e strade e anche di imponenti teatri, circhi e anfiteatri. Due sono le cose principali che la civiltà romana ha lasciato all’umanità: le leggi e le strade. Leggi e strade che resistono fino alla nostra epoca ; il Diritto romano è ancora parzialmente presente nelle legislazioni di mezzo mondo e il suo studio fa parte degli atenei; le strade e i ponti, come gli acquedotti, sono ancora utilizzati spesso per i medesimi scopi per i quali furono costruiti due millenni fa. In ogni caso la loro resistenza alle dure leggi della corruzione del tempo ci dimostra come i nostri antichi avi costruissero per sfidare i secoli. Gli antichi romani avevano capito che per amministrare e controllare il loro immenso impero avevano bisogno di muoversi con facilità e sicurezza e i ponti erano gioco-forza gli elementi di continuità oltre gli sbarramenti naturali. Nei momenti bellici e in caso di urgente necessità, erano capaci di costruire un ponte in legno, per far passare i soldati oltre un fiume , in un solo giorno.Usavano leve, puntelli, argani, carrucole in modo talmente appropriato e coerente che alcune soluzioni tecniche ci sono tuttora sconosciute.Osservare i maestosi resti dell’acquedotto Claudio nella campagna romana, l’imponente Colosseo dell’Urbe o l’Arena di Verona come il monumentale ponte–acquedotto sul Gard vicino Avignone o altri simili costruzioni in altre parti dell’Europa o dell’Africa del nord, ci dimostrano la volontà costruttiva e il livello tecnico raggiunto dalle maestranze latine di quel periodo.La cupola del Pantheon di Roma è ancora l’opera più ardita a cui si guarda ogni volta che bisogna costruire una cupola. Il ponte di Pietralunga si collega con la conquista romana della Sicilia avvenuta con la prima guerra punica per strappare Messina ai cartaginesi nel 264 a.C. Conquistata l’isola si iniziarono le costruzioni pubbliche e le strade avevano la precedenza. La Sicilia sappiamo che era il granaio di Roma e trasportare il necessario cereale dall’interno necessitava di strade ampie e sicure.Il ponte infatti collegava Catania con l’interno attraverso Paternò e Centuripe e poi fino ad Enna. Antichi studiosi come Ignazio Paternò Castello accennavano al suddetto ponte già nel 1781 e poi anche il reverendo e compianto Gaetano Savasta nel suo libro “ Memorie storiche della città di Paternò” nel 1905 ; anche se l’antico eponimo di “coscia del ponte” si richiamava all’antico manufatto, per secoli l’arcata romana è stata praticamente seppellita dalla rena del fiume e dal silenzio. Il sottoscritto a seguito delle ricerche superficiali della zona notò la costruzione abbandonata e seminterrata. Più di una volta resistette alla tentazione di meglio osservare il torrione di pietre e conci che leggermente si intravedeva dalla riva del Simeto e quando si decise a toccare con mano di cosa si trattasse rimase quasi incredulo: Un ponte romano a Paternò. Mi ricordai che tanti anni prima, durante una piena del fiume, era venuta alla luce sulla sponda destra e quasi attaccata all’attuale margine, una antica strada romana che puntava verso nord-ovest, verso cioè Centuripe, sfruttando inizialmente la sponda destra del Simeto. All’inizio non seppi dare ragione e mi ero convinto per lungo tempo che doveva trattarsi della via di collegamento all’insediamento greco-romano do Pietralunga sul mone Castellaccio ma in effetti era un’opera troppo impegnativa per il relativamente piccolo insediamento di quei bassi monti . Adesso invece tutto era chiaro: le basole di calcare ben squadrate che sottocosta viaggiavano quasi a confine con il fiume continuavano sulle arcate. Una strada perciò non a mezza costa ma più bassa e il fatto che sia il ponte che le basole non sono ora vicini all’acqua fanno pensare che il corso del fiume poteva essere all’epoca leggermente spostato a sinistra.Del rinvenimento feci partecipe il prof. Angelino Consolo che ne diede notizia sul quotidiano La Sicilia domenica 27 agosto 1989. A seguito di ciò e anche per l’interessamento del gruppo locale di archeologia la Soprintendenza si mosse e iniziarono finalmente gli scavi.Il ponte giace su una potente massicciata che fa da base ai piloni e di conseguenza alle arcate.Una finestra a botte serviva a far defluire eventuali piene e un pronunciato sperone avanzato serviva da frangiflutti.Mi hanno colpito i conci della volta interna: poggiano a secco e sono in strati e alcuni in alto sono bugnati all’interno e presentano un incastro tipo coda di rondine.Fa contrasto l’esatta precisione dei blocchi faccia-vista con il riempimento a sacco dell’interno; ma questa era una tecnica tipicamente romana.Il ponte non è eccessivamente alto è questo potrebbe essere stato l’errore compiuto nella sua costruzione che non ha dato eccessivamente peso ai rari ma presenti periodi di piena del fiume durante talune stagioni invernali. Osservando però bene la potenza della struttura sembra difficile – anche se non impossibile -– che la forza del fiume sia stata capace di distruggere le arcate.In questi casi comunque , una strada ormai costruita pretende una riparazione e non un abbandono di una simile e ardita costruzione. Piuttosto facile pensare che il ponte ha subito la distruzione in epoca medievale antica come forma difensiva- passiva per impedire l’avanzata di eserciti invasori – tesi che viene avvalorata dall’Ansaldi nelle sue memorie storiche su Centuripe – e che la zona sia stata poi in un certo senso abbandonata , per la costruzione di un ponte più a nord di Pietralunga e di conseguenza siano poi caduti in incuria sia il ponte e che la relativa strada. Anche se l’altezza del manufatto non è elevata, la sua larghezza 4,15 metri ( 14 piedi, un piede era lungo 29,64 cm),è quella classica di una strada romana, capace cioè di far transitare due carri e permettere loro di rimanere in carreggiata. I costruttori romani cercavano quasi sempre di mantenere le misure standard ma esistono strade larghe appena poco più di un metro fino a sette. Autore della costruzione o perlomeno interessato alla sua costruzione dovrebbe essere stato , intorno al 164 d. C. il curatore delle cose pubbliche di Catina ( Catania ) Giulio Paterno (Soraci/La Sicilia in età imperiale/Minerva Editrice).La costruzione perciò sarebbe di epoca imperiale.Egli prende l’iniziativa di inviare una lettera a Lucio Vero e Marco Aurelio (coimperatori 161-180 d. C.) con la quale lamenta la necessità di finanziare alcune opere pubbliche catanesi.Il patronimico Paterno potrebbe essere alla base del toponimo di Paternò,scrive Nino Tomasello; ricordando che sino al XVI d.C, (vedasi il libro cassa delle Benedettine di Paternò), la datazione degli acquisti del Monastero riporta Paterno e non Paternò, cioè senza accento.Insomma così come la Regina Viarum – com’era chiamata la Via Appia nell’antichità – che fu costruita nel 312 a. C. dal censore Appio Claudio Crasso e da lui ne prese il nome, così il Procuratore Generale di Catania, ” curatores rei pubblicae” Giulio Paterno dette, quasi sicuramente, il nome alla strada e al centro abitato di Paternò, strada che da Catina arrivava oltre Centuripe passando per Paternò.Più che il ponte quindi, che risulta svincolato dal centro urbano, è la strada che passa proprio per il baricentro del paese tra il cardo e il decumano che si incrociano nell’attuale piazza ” Quattro Canti” a dare il nome alla città di Paternò. Recuperato il manufatto è giusto e doveroso ora curarne la fruibilità e lo stato di visibilità.Potrebbe rendersi necessario creare un itinerario storico e pubblicizzarlo sia alle scuole come ai normali visitatori stagionali della città.Utile transennare l’area e periodicamente darle una semplice manutenzione per evitare che erbacce e sabbia ricoprano la nostra oltre bimillenaria “coscia di ponte”; altrimenti risulterebbe un lavoro sprecato, fatto quasi per niente.
Da http://digilander.libero.it/archeopaterno/

Foto di Michele Torrisi

Sito Etnanatura: Ponte Romano di Pietralunga.

Share Button

Il pozzo di Ruggero

Share Button

27-01-2014 15-13-03La tradizione narra che in prossimità di Giarre nella odierna frazione di Santa Maria la Strada il Gran Conte Ruggero, mentre andava contro un esercito saraceno, invocò l’aiuto della Madonna e fece voto, in caso di vittoria di erigere un Santuario ed un pozzo. Ottenuta lla vittoria il conte mantenne il voto ed edificò sia il Santuario che una cisterna. Da allora il pozzo è stato chiamato di Ruggero ed il Santuario è stato meta di pellegrinaggi sino ai nostri giorni. Di questa bella leggenda non vi è alcuna conferma storica ed è possibile che la tradizione sia da collegarsi alla intensa attività di riconversione al cristianesimo avvenuta nel primo periodo normanno in Sicilia (XI secolo). L’attuale chiesa è di stile settecentesco siciliano. Sul pozzo, che è di incerta datazione e si trova proprio di fronte al santuario, vi è una lapide di marmo a ricordo del gran conte normanno. Da Wikipedia.

Sito etnanatura: Pozzo di Ruggero.

Share Button

La cisterna della regina

Share Button

534098_625864044133503_674626593_nLa Cisterna della Regina è una grande cisterna idrica appartenuta ad una tenuta reale del XIV secolo insistente nel territorio comunale di Belpasso, presso la contrada Regina Coeli.La tenuta comprendeva una villa ed un giardino fatta edificare da Eleonora d’Angiò, consorte del re Federico III di Aragona, dopo la morte del marito, avvenuta nel 1337. La villa si trovava nelle vicinanze dell’antico monastero di San Nicolò l’Arena, i cui monaci riservarono alla regina una cella per la preghiera per la contemplazione, e dove morì il 9 agosto 1345. La regina ebbe con le terre a nord di Malpasso (città dello Stato di Paternò, da cui ebbe origine poi l’odierno abitato di Belpasso) un rapporto molto stretto, e come lei i molti notabili del regno di Sicilia.
Le rovine della tenuta sono oggi comunemente denominate della Cisterna Regina e si trovano a nord-est di Belpasso. Del vecchio fabbricato è rimasto ben poco; questo sorgeva in una zona in dolce declivio solcata dalle acque del fiume Piscitello.
La villa nel 1910 venne investita da un braccio di lava che sommerse la parte più importante del caseggiato e l‘enorme cisterna che raccoglieva le acque piovane. La colata si arrestò proprio sul luogo in cui sorgeva la villa.

Testo tratto da Wikipedia

Foto di Salvo Nicotra

Sentiero etnanatura: Cisterna della regina.

Share Button