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Foto - Collina di Paternò
Per saperne di più: pagina Etnanatura--> Collina di Paterno

Descrizione:
Il colle di Paternò è una collina di origine vulcanica, situata nella zona ovest della città di Paternò, in provincia di Catania, della quale costituisce la parte alta e più antica, da cui la denominazione usuale di "collina storica". Il sito fu probabilmente un vulcano preistorico spento, e la superficie infatti è caratterizzata dalla massiccia presenza di pietra lavica. Vi si sviluppò il nucleo originale della città di Paternò, ma verso il XIV ed il XV secolo con la rivoluzione urbanistica che interessò la città, il colle si spopolò rapidamente a favore della pianura sottostante. Vi si trovano alcuni tra i più importanti monumenti storici della città etnea, gran parte dei quali risalenti all'epoca normanna, come il castello, simbolo della città fatto erigere nel 1072 da Ruggero I d'Altavilla, la chiesa di Santa Maria dell'Alto, la chiesa di Santa Maria della Valle di Josaphat, il complesso di San Francesco alla Collina. Nel colle si trova anche il cimitero monumentale, che ospita qualche monumento e dove vi sono sepolti anche alcuni soldati ungheresi morti in prigionia a Paternò durante la grande guerra. Vi si può accedere dalla parte bassa attraverso la scalinata settecentesca della Matrice, realizzata nel 1782. La costruzione di questa scalinata, consentì un relativo ripopolamento del colle e il recupero degli edifici storici. Un'ulteriore valorizzazione del sito si è avuta negli anni 1970, quando furono effettuati lavori per la costruzione di strade, dell'installazione dei lampioni per l'illuminazione pubblica e l'abbellimento degli edifici storici con il rinverdimento delle aree circostanti.
Castello (Vedi sito Etnanatura).
Per Castello normanno di Paternó si intende la torre principale - sovente detta "dongione" - di un complesso fortilizio che essa dominava. Assurta a simbolo della cittá, la torre faceva parte di un castello fatto edificare nel 1072 dal Gran Conte Ruggero per garantire la protezione della valle del Simeto dalle incursioni islamiche. Il castello fu assegnato alla figlia di Ruggero, Flandrina, sposa dell'aleramico Enrico di Lombardia. Attorno al castello e al piccolo borgo la popolazione inizió a crescere grazie ai numerosi mercenari al seguito dei conquistatori normanni e all'arrivo di coloni provenienti dall'Italia settentrionale attirati dai privilegi a loro concessi. Il primo nucleo del maniero fu ben presto ampliato e dalle primigenie funzioni prettamente militari fu utilizzato per usi civili, divenendo la sede signorile della Contea di Paternó che Enrico VI di Svevia assegnó nel 1195 al nobile di origine normanna Bartolomeo de Luci consanguineo del sovrano svevo. Il Castello negli anni seguenti ospitó re e regine, tra i quali Federico II di Svevia, la regina Eleonora d'Angió e la regina Bianca di Navarra. E per concessione di Federico II passó a Galvano Lancia. Il castello di Paternó e i territori sottoposti, infatti, furono inseriti nella cosiddetta Camera Reginale che venne costituita da Federico III d'Aragona come dono di nozze alla consorte Eleonora d'Angió e che poi venne ereditata dalle Regine che si susseguirono, sino alla sua abolizione. Dopo il 1431 appartenne alla famiglia Speciale e dal 1456 fino alla fine del feudalesimo fu proprietá della famiglia vicereale dei Moncada. Utilizzato come carcere nel XVIII secolo inizió il processo di degrado e abbandono, ma dalla fine dell'Ottocento ha visto diverse campagne di restauro che gli hanno restituito l'antica possenza. L'edificio é a pianta rettangolare su tre livelli e raggiunge un'altezza di 34 m. Dall'epoca sveva il maniero era coronato da una merlatura ghibellina (come si osserva nel seicentesco Disegno della veduta di Paternó) di cui allo stato attuale resistono solo dei monconi. Particolarmente interessante e gradevole l'effetto di bicromatismo che si crea tra il colore scuro delle murature e le cornici delle aperture in calcare bianco. Al piano terra si trovano una serie di ambienti di servizio e la cappella di S. Giovanni ornata da pregevolissimi affreschi del XIII secolo. Al primo piano il grande salone d'armi é illuminato da una serie di bifore. All'ultimo piano quattro grandi ambienti un tempo adibiti per l'abitazione del re sono disimpegnati da un vano delle dimensioni del salone sottostante e disposto trasversalmente ad esso, chiuso su entrambi i lati da due grandi bifore gotiche che dischiudono lo sguardo verso il Simeto e verso l'Etna.
Chiesa di Santa Maria dell'Alto.
La Chiesa di Santa Maria dell'Alto, detta anche Chiesa Matrice o la Matrice, è un luogo di culto cattolico sito in Paternò, in provincia di Catania. È suffraganea alla Chiesa della Santissima Annunziata. La fondazione della chiesa, sull'antico abitato di Paternò concentrato sul colle, risale al 1072, in epoca normanna, e molto probabilmente fu costruita su una chiesa in rovina risalente all'epoca bizantina. Fonti storiche affermano che sul medesimo sito, in età antica sorgeva un tempio pagano dedicato alla dea Ibla. La chiesa fu fondata per opera del Gran conte Ruggero I di Sicilia, con il titolo di Santa Maria del Signore, divenuta patrona di Paternò, che con diploma del 30 settembre 1114 concesso da Angerio da Sant'Eufemia, vescovo di Catania, fu esentata dalla giurisdizione della Chiesa catanese. Il re Ruggero II di Sicilia, figlio del predetto Gran conte, con diploma dato il 15 gennaio 1130, elevò il tempio a basilica e Chiesa Regia. Già dopo la morte del Gran conte Ruggero, avvenuta nel 1101, la chiesa assieme ad altri beni, fu donata all'Ordine di Santa Maria di Valle Josaphat, e con ciò resa suffraganea dell'omonima chiesa sorta a ridosso del colle per volontà della consorte, la contessa Adelasia del Vasto. L'atto di donazione venne ratificato con bolla emanata da papa Innocenzo II il 18 maggio 1140, con la quale il pontefice confermava la prioria alla chiesa della Valle di Josaphat. Un successivo diploma venne dato nel 1205 dal vescovo Ruggero Orbus, col quale riconosceva all'arcidiacono di Paternò diritto di sacra visita nei confronti delle comunità religiose del territorio. In epoca aragonese, la regina Eleonora d'Angiò conferì al tempio il beneficio dell'extraterritorialità, che garantiva diritto d'asilo ai rei che l'avessero invocato, e nel 1342, ad opera dell'arciprete Michele Caropepe, godette di vari interventi e, come sembra, di nuove fabbriche, attestate da un'epigrafe che si conserva murata sull'alto della porta di accesso all'antica canonica: "J[esu] D.[omini] A.[nno] MCCCXXXXII hoc opus fare fecit Michaeli di Carupipi". Più vasti interventi seguirono nel XV secolo, con l'esecuzione di varie opere di rifacimento e del riattamento delle strutture deteriorate dal tempo e bisognevoli di restauri, oltre che della decorazione interna. Una transazione del 1508, in forza della quale l'arciprete Bernardo de Capo concedeva in enfiteusi un appezzamento di terreno di proprietà della chiesa e una fitta serie di atti soggiogatori e bollatici dei secoli successivi, attestano inoltre che la parrocchia era dotata di un ricco patrimonio immobiliare. Il 24 novembre 1559, il vescovo di Catania, Nicola Maria Caracciolo elesse la chiesa a collegiata, e con breve del 16 luglio 1564 il pontefice Pio IV approvò la costituzione del collegio. Questo collegio, con privilegio del 23 aprile 1635 dato dal vescovo Flaminio Paternò, fu composto da sedici parroci, e il 3 maggio 1670, il vescovo Michelangelo Bonadies istituiva il capitolo della collegiata, con tre dignità - prevosto, cantore e tesoriere - dodici canonici e sei mansionari. Una bolla del 21 marzo 1688 del papa Innocenzo XI, resa esecutiva il 31 ottobre 1689, annesse la cura delle anime alle Tre Dignità della Matrice di Paternò. Nel XVIII secolo, l'edificio subì nuove trasformazioni, tra cui il cambio di orientamento, per avere il nuovo accesso rivolto verso la città, il cui abitato si era spostato nella parte orientale sulla pianura sottostante. Infatti il tempio in origine aveva le absidi rivolte verso la città e la facciata principale era rivolta verso la valle del Simeto, dove si sviluppava il borgo antico. I lavori per l'inversione dell'orientamento della chiesa, furono effettuati con molta probabilità nel 1690, anno impresso nell'architrave di una delle finestre laterali del tempio. Dopo il terremoto del 1693, il bene fu ricostruito interamente in stile barocco, e i lavori per il rifacimento della facciata risalgono probabilmente all'ultimo ventennio del XVIII secolo. Alla stessa epoca risalgono i lavori degli interni, che videro la sostituzione della primitiva copertura in capriate lignee con una volta a botte e la realizzazione degli archi della navata centrale in ordine tuscanico, che poi in epoca recente furono disintonacati perché erroneamente ritenuti di epoca medievale. L'orientamento dell'ingresso segnò una svolta molto importante, infatti verso il 1782 venne costruita la monumentale scalinata, che dai piedi della rocca sale fino al sagrato della chiesa, creando un bellissimo insieme monumentale. A partire dal 1715, la Collegiata paternese era retta da quattro dignità (prevosto, cantore, tesoriere e decano) e da dodici canonici. Nella seconda metà del predetto secolo, la Chiesa Matrice di Paternò, proprietaria di numerosi beni, dovette affrontare cause giudiziarie contro il Demanio e contro l'Arcidiocesi di Catania, con quest'ultima, a quel tempo retta dal cardinale Giuseppe Benedetto Dusmet, che ne reclamava il possesso. Il 3 febbraio 1915, la basilica di Santa Maria dell'Alto, fu aggregata sotto un'unica parrocchia alla Chiesa della Santissima Annunziata dalla Curia catanese, e perse il titolo di Chiesa madre in favore di quest'ultima. Nella chiesa della Santissima Annunziata, furono trasferiti i quadri ospitati alla Matrice, e a partire da quella data iniziò il declino dell'antica fabbrica che culminò nel lungo periodo di chiusura. Chiusa agli inizi degli anni cinquanta del XX secolo, fu sottoposta a interventi di restauro nei decenni successivi, e riaperta al pubblico nel 1992. La chiesa è a pianta basilicale con tre navate, divise da due lunghe file di possenti pilastri realizzati con conci in pietra lavica a vista, su cui si impostano archi a tutto sesto sempre in pietra lavica, sormontati da un cornicione tuscanico. L'originale copertura del tempio era costituita da capriate lignee intagliate, sostituite nel Settecento da una lunga volta in muratura. Alcune di queste capriate sono esposte nel corridoio adiacente la sacrestia. Le diverse epoche, e i tempi di costruzione e rifacimento, hanno conferito alla chiesa diversi stili: dalla nuda pietra lavica del colonnato si passa al barocco e al neoclassico. Molti altari trovano posto nelle navate laterali, e sono completati da grandi tele, alcune delle quali sono state trafugate. Le tele esposte sono: La Madonna con le anime purganti, Santa Barbara con le Sante Lucia ed Agata, il martirio di San Vincenzo e il Martirio di Santo Stefano; nella navata di destra, conclusa dalla cappella del Crocifisso, scultura lignea secentesca contornata da un grandioso reliquiario barocco. In questa navata fa mostra di sé un antico pulpito in stile barocco; tutto il legno intagliato, di color bianco e oro. La navata di sinistra ospita le tele della Madonna del Riparo, di San Pietro in Cattedra e dell'Angelo Custode. La cappella in fondo è dedicata al Sacramento ed è arricchita da un altare in marmi intarsiati, sormontato da un tabernacolo intarsiato. Una statua di San Vincenzo martire è esposta in chiesa, e risale al 1500. Molto interessante è il pavimento di queste due navate laterali, tutto in cotto ceramicato, dai colori policromi. L'altare maggiore che si eleva sopra una scalinata in pietra lavica accoglie la tavola bizantina della Madonna Nera con il Bambino in braccio, chiusa dentro una cornice lignea intagliata e indorata. Il coro ligneo barocco del 1650 circa completa l'arredo del presbiterio. Da una porta laterale si accede alla sacrestia. Un tempo aula capitolare, circondata da un mobilio ligneo del Settecento, dove prendevano posto i numerosi canonici della Matrice, ovvero i preti che facevano parte del Capitolo collegiale. La grandiosa e alta facciata fu realizzata nel tardo XVIII secolo in stile neoclassico. È costituita da un portale principale d'ingresso, affiancato ai due lati da due finestre quadrate, sormontato da una finestra rettangolare, a sua volta affiancata ai due lati da due celle campanarie per lato. Nella parte posteriore dell'edificio, verso il cimitero, sono, invece, ancora percepibili i resti dell'antico prospetto medievale.
Chiesa di Santa Maria della Valle di Josaphat.
La costruzione della chiesa fu avviata nel 1092, su commissione della contessa aleramica Adelasia del Vasto, terza moglie del normanno Gran conte Ruggero. I Normanni, giunti in Sicilia su sollecito del papa Niccolò II nel 1059, per cacciare gli Arabi che occupavano l'isola da due secoli, avevano come principale obiettivo della propria strategia politica la diffusione del rito latino. Essi favorirono perciò la nascita di monasteri secondo la regola benedettina ed emarginarono i centri monastici basiliani, che l'ortodossia greca rendeva sospetti di atteggiamenti favorevoli al regime bizantino, e pertanto la chiesa edificata a Paternò, come molte altre sorte nell'isola in epoca normanna, fu donata all'Ordine di Santa Maria di Valle Josaphat, da cui trae origine il nome. Oltre che come luogo di culto, la chiesa ebbe anche la funzione di fortezza militare, poiché la sua fondazione avveniva successivamente alla rivolta del 1085 di Catania capeggiata dall'arabo Benavert. Il Vescovo di Catania, il bretone Ansgerio, agli inizi del XII secolo, elevò la chiesa a priorato dell'Ordine, e successive donazioni di beni e terreni compiute tra il 1113 e il 1222 da Adelasia e dal fratello Enrico, divenuto Conte di Paternò, accrebbero la sua importanza e il suo patrimonio. Il 30 settembre 1114, Ansgerio concedette alla chiesa l'esenzione dalla giurisdizione vescovile e numerose prerogative ecclesiastiche, e la elevava a parrocchia e a cimitero; il successore di Ansgerio alla diocesi catanese, Maurizio, con privilegio del 14 luglio 1124, confermava le donazioni del Conte Enrico; il papa Innocenzo II con bolla del 18 maggio 1140, confermava all'abate di Valle Josaphat i privilegi concessi dai vescovi Ansgerio e Maurizio. Successive conferme di privilegi e donazioni sono contenute in vari diplomi dei Re di Sicilia, Guglielmo I (1154, 1166), di Guglielmo II (14 luglio 1172, gennaio 1188), di Enrico (1194), di Costanza (13 gennaio 1196) e di Federico II (giugno 1221), che documentano non solo la ricchezza dell'Abbazia, ma anche la floridezza della sua attività commerciale, che la vide persino esportatrice nei mercati d'Oriente dal porto di Messina di merci con diritto franco fino alla concorrenza di centoventi tarì d'oro annuali di imposte (diploma di Guglielmo II del 2 aprile 1185: «res quoque sua de Paternione libere deferebant et vendebant»). La chiesa fu ufficialmente consacrata nel 1123, e i monaci benedettini dell'Ordine di Josaphat vi edificarono l'annesso monastero. Dal 1197, l'abbazia benedettina paternese divenne suffraganea del Monastero di Santa Maddalena di Messina. Prosperò per quasi quattro secoli, finché non andò in declino, e nel 1445, a seguito di bolla emanata dal papa Eugenio IV,venne aggregata al Monastero di San Nicolò l'Arena di Catania, confermata da una successiva bolla del 2 luglio 1457 di papa Callisto III. Da quel momento la grangia di Santa Maria della Valle di Josaphat, cessò di esistere come autonomo centro di vita monastica e le sue vicende seguivano quelle del monastero di San Nicolò l'Arena, dove pure venne trasferito l'antico fondo archivistico; nei locali del convento annesso alla chiesa, restaurati e ampliati con l'aggiunta di un nuovo corpo di fabbrica, venne trasferito dopo il 1866 l'antico ospedale Santissimo Salvatore. Dal 1951, la chiesa è dedicata al culto mariano dell'Assunzione di Maria. Nel periodo compreso tra la fine del XX secolo e l'inizio del XXI, l'immobile è stato sottoposto a interventi di restauro.
Complesso di San Francesco alla Collina.
Le origini del convento risalgono al 1086, quando il gran conte Ruggero fece erigere sulla collina di Paternò una chiesa in onore di san Giorgio. La costruzione, probabilmente di modeste dimensioni, nel 1114 fu eretta in regia cappella da Ruggero II; nel 1196 fu ceduta ai monaci benedettini. Dopo la morte di Federico III di Aragona, il complesso rimase proprietà della regina Eleonora d'Angiò che alla sua morte nel 1343, lo donò ai francescani, i quali, concessa l'autorizzazione nel 1346 dal pontefice Clemente VI, demolirono le vecchie case per l'edificazione del nuovo complesso conventuale. Per molti anni il convento prosperò grazie ai Moncada, ma a causa del terremoto del 1693 subì gravi danni, tra cui il crollo dell'ala est, e venne abbandonato. L'ala sud seppur danneggiata, conservò la copertura fino al 1915, mentre il tetto a capanna della chiesa crollò nel 1904 a causa del degrado dei materiali. Nel 1906 il complesso fu venduto al barone Cara Zuccaro, che con i contributi della soprintendenza iniziò i lavori di ricostruzione del complesso per adibire la chiesa a cappella di famiglia; pensando che si trattasse del palazzo dei re aragonesi furono eseguiti in tale occasione interventi che alterarono l'aspetto originario. Dopo un periodo di abbandono, negli anni venti, il Ministero della Pubblica Istruzione si occupò della tutela dell'intero complesso e tra gli anni quaranta e novanta furono eseguiti interventi di restauro che hanno permesso la salvaguardia della chiesa e di una parte delle murature del convento. La chiesa, restaurata, è utilizzata saltuariamente come sala conferenze e di esposizione mentre i resti del monastero sono chiusi al pubblico. Nel 2009 sono stati avviati altri lavori di restauro dell'ala principale del convento per poterla utilizzare per mostre e convegni.
Salinelle dei Cappuccini.
Sono collocate all'estrema periferia nordoccidentale della città e denominate Salinelle dei Cappuccini, poiché sorge in una zona in cui dal 1556 al 1596 era presente la chiesa dei Frati Cappuccini, sede poi abbandonata a causa dell'insalubrità dell'aria e costruita nella sua attuale ubicazione . Tale fonte è detta anche Salinelle dello Stadio in quanto si trovano in prossimità dello stadio comunale, oppure Salinelle di San Marco in quanto tocca il versante nordorientale della collina di San Marco. Presentano un terreno argilloso che non consente lo sviluppo di vegetazione e il suo aspetto è mutevole a seconda delle condizioni climatiche. Delle due salinelle che sorgono nel territorio di Paternò, hanno maggiore estensione (30.000 mq) e sono le più attive in quanto presentano numerosi fenomeni di emissione di acqua e fango con un alto contenuto salino.
Fonte Wikipedia.
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